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L’alimentare, un falso positivo

Fino a oggi abbiamo comprato fondamentalmente tempo, la merce più rara della nostra esistenza eppure, il mondo postpandemico, sembra ridisegnare anche le necessità primarie ed ecco che il distanziamento sociale ci costringerà a comprare anche lo spazio. E non sarà gratis.

Un prezzo piuttosto salato a dire il vero. Soprattutto se rapportato ad attività come bar, ristoranti e tutti quegli esercizi dedicati a un break di ristoro per le nostre papille gustative.

Il contingentare gli ingressi e gestire gli spazi per tutte queste attività significa ridurre l’incasso di almeno il 50%. E allora diremo addio – speriamo temporaneamente – all’atmosfera da osteria che da nord e sud è custode delle tradizioni alimentari del nostro paese, delle produzioni locali, della cucina delle nonne, rifugio per noi italiani e luoghi ricercatissimi dai turisti affascinati dalla ricchezza e varietà della cucina italiana.

Ma la ristorazione, in ogni sua forma, non è solo una questione metroromantica. I pasti consumati fuori casa infatti hanno rappresentato, nel 2019, il 24,7% del fatturato dell’intero settore alimentare. Un trend decisamente in crescita, basti pensare che negli ultimi anni è cresciuto di oltre due punti percentuale. Non solo. In un paese caratterizzato da piccole e medie imprese, lontane – seppur partecipi – dalle logiche della grande distribuzione moderna, è proprio nel settore del consumo di pasti fuori casa che trova la propria valorizzazione. E, possiamo dirlo, il proprio profitto.

Cos’è stato fatto per salvaguardare questo patrimonio? Al momento, almeno da chi ci governa, poco o nulla. La ristorazione in ogni sua forma è ferma. E con lei il relativo indotto: in assenza di incassi infatti le imprese sono entrate in difficoltà e non hanno saldato le fatture pregresse e non sono stati effettuati nuovi ordini.

Mentre assistiamo alla ripartenza delle altre economie europee, non ci resta che rimboccarci le maniche e guardare a nuovi sbocchi su mercati internazionali in lenta ma programmata riapertura piuttosto che aspettare – sine die – la lenta ripresa del consumo interno.

La vicina Germania – tra le altre misure – ha deciso di abbassare temporaneamente l'iva per la gastronomia: per ristoranti, bar e birrerie la tassa sul consumo sarà ridotta dal 19% al 7% sui pasti, a partire dal 1 luglio e per un anno con l’obiettivo unico di dare una spinta al settore per la ripartenza.

Uno boccata di ossigeno per un settore che, soprattutto nelle grandi città, vive della macchina del turismo  - altrettanto fermo – che chissà quando tornerà ad animare il Belpaese. Una situazione logorante che, per rimanere in tema, sembra non avere una data di scadenza.

E se qui da noi le primissime fievoli luci hanno il nome di “asporto”, il nostro centro studi conferma il sentimento comune. Si tratta di un primo passo, è vero, ma solo per la conduzione familiare  perché per ora non c'è assolutamente quella capacità economica che consente di richiamare al lavoro i dipendenti o gli addetti alla cucina. Luci che si accendono e serrande tirate su iniziano a vedersi ma sono legate alla conduzione familiare, ma le strutture organizzate, i caffè storici e la ristorazione nel suo complesso chiaramente non può avviarsi senza le brigate di cucina e con il rischio di vendere solo 5 o 6 pasti. 

Fiamme pilota, macchine del caffè e spine che forse non rientreranno mai più in funzione: se guardiamo le stime infatti al 31 dicembre perderemo per cessata attività tra il 10 e il 20% degli esercizi pubblici. Attività che non saranno sopravvissute.   

Un sentito e doveroso grazie a tutti coloro che hanno potuto riaprire, perché non lo hanno di certo fatto per fare cassa, ma per regalarci un barlume di normalità, per dare a tutti noi un segnale di fiducia, un’azione sociale più che un’attiva economica.  Pietro Marcato - Presidente Nazionale Confimi Alimentare 
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