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L’Europa chiede più bio, ma per farlo servono i semi giusti, non quelli delle multina-zionali

Secondo la Fao negli ultimi 100 anni, è scomparso il 75% delle specie vegetali impiegate in agricoltura. Tra le principali cause della perdita di biodiversità troviamo l’uso di poche varietà vegetali che vengono coltivate su terreni sempre più estesi. L’altro elemento su cui riflettere è che il 60% dei semi venduti in tutto il mondo proviene da quattro aziende, che a loro volta producono pesticidi e concimi impiegati nell’agricoltura industrializzata. Questo modello ha dimostrato di avere effetti negativi sulla biodiversità agricola, ma anche su ambiente e salute umana. Parte delle sementi utilizzate non è “riproducibile” oppure l’autoriproduzione a cura dell’agricoltore non risulta interessante perché instabile e poco produttiva.

La strategia europea From farm to fork  prevede che entro il 2030 i campi biologici arrivino al 25% della superficie agricola del continente. Si tratta di un obiettivo importante e ambizioso visto che il bio copre oggi l’8% delle terre agricole europee (in Italia questo dato sale al 15,8%). Per moltiplicare i campi bio così come indica il Green Deal, occorre partire da semi adatti. Semi che siano in grado di produrre piante con radici ramificate e profonde, in grado di cercare il nutrimento, che non viene fornito in forma immediata dai fertilizzanti chimici sparsi sul terreno. L’agricoltura biologica necessita di varietà ‘locali’, legate cioè alle caratteristiche delle aree di produzione, oppure selezionate in modo specifico per una pratica agroecologica, in grado di svilupparsi pienamente in campi dove la chimica di sintesi non viene impiegata. Si tratta di semi che – ad esempio – sono in grado di dare vita a piante di frumento alte, in grado di competere con le erbe infestanti. O che siano in grado di far fronte, anche per diversità e varietà, ai cambiamenti climatici.

Di questo si è parlato nel web talk “Dal seme alla tavola/From Seed to Fork” che NaturaSì e Slow Food Italia, in collaborazione con Fondazione Seminare il Futuro, hanno organizzato all’interno di Terra Madre, in occasione della Giornata mondiale della Terra. “Il biologico vive di biodiversità”, ha detto Fausto Jori di NaturaSì. “L’agricoltura così come è stata concepita a partire dalla metà del secolo scorso punta sulla semplificazione: gli stessi semi, e, quindi, le stesse piante alimentari, dalla Finlandia al Vietnam al Cile. Questo è possibile attraverso l’uso di pesticidi e fertilizzanti che rendono omogeneo l’ambiente di crescita ma che allo stesso tempo sono causa dell’inquinamento dell’acqua, del suolo, dell’aria. Una diversa agricoltura parte anche dal seme giusto e questo richiede un lavoro lungo e puntuale per selezionare i semi del futuro”.

“I semi devono essere considerati un bene comune, perché sono alla base della nostra vita, essenziali alla sopravvivenza del Pianeta. E mettere la nostra esistenza in mano a poche aziende non è giusto oltre che pericoloso”, ha commentato Carlo Petrini di Slow Food. “Non va trascurato, poi, che le grandi aziende che hanno il controllo delle sementi sono leader nella produzione di pesticidi e diserbanti. Quindi, c’è un intreccio tra chi produce semi e input chimici per il terreno. Tutti noi abbiamo un dovere preciso nei confronti dei semi: proteggerli, liberarli e condividerli per tutelare il patrimonio di diversità biologica e culturale che rappresentano, a prescindere dalla convenienza economica. Il percorso ha un punto di partenza: i contadini e la terra. Lo scopo è dare la possibilità agli agricoltori di produrre in modo sostenibile semi sani e in grado di rappresentare territori e culture”.

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