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IL DNA BARCODING SI AFFACCIA NEL MONDO AGROALIMENTARE

Come si può essere sicuri che il bastoncino di pesce panato sia proprio merluzzo o che la polverina rossa comprata sia davvero zafferano? Quando gli alimenti sono lavorati e non si riconoscono più a occhio nudo, un’azienda deve fidarsi dei propri fornitori e i consumatori dell’etichetta. L’alternativa possibile è analizzare il prodotto con la tecnica del DNA barcoding.  Il DNA barcoding, letteralmente il “codice a barre” del DNA, è una tecnica che sfrutta particolari sequenze geniche, dette marcatori molecolari, uniche e specifiche per ogni specie animale, vegetale e per i microorganismi. Questi “codici a barre” molecolari sono depositati da scienziati e ricercatori di tutto il mondo in un database, la “Banca dati per il codice a barre della vita” o BOLD, gestito da un Consorzio internazionale, di cui fanno parte due università italiane, l’Istituto di analisi dei sistemi e informatica del CNR e l’Istituto zooprofilattico sperimentale del Piemonte.

Questa tecnica rappresenta un importante strumento per le aziende agroalimentari ed erboristiche perché consente di certificare l’identità delle materie prime di origine animale e vegetale e individuare contaminazioni e sostituzioni (accidentali o fraudolente). In questo modo è possibile selezionare i fornitori più affidabili e dare una garanzia in più ai consumatori. Al termine delle analisi, il prodotto analizzato ottiene il logo “Verified DNA” che viene riportato in etichetta.

Ovviamente anche questo sistema ha i suoi limiti. Le analisi genetiche si scontrano infatti con trattamenti di trasformazione molto aggressivi, come per esempio temperature molto alte o estrazioni con solventi, che possono distruggere o degradare il DNA. Si tratta però di un problema che interessa di più i prodotti erboristici, rispetto agli alimenti.

Il DNA barcoding si presta bene per identificare le specie ittiche ed è già stato validato su tutta la filiera, dal tonno in scatola ai panati surgelati (tranne l’olio di pesce). FEM2-Ambiente sta anche collaborando con Friends of the Sea per l’analisi genetica nella certificazione di sostenibilità del pescato. Anche il Marine Stewardship Council, un altro organismo di certificazione, ha usato questa tecnica per scoprire il tasso di sostituzione di specie tra i prodotti con logo MSC e verificare l’affidabilità del processo. 

Il “codice a barre” può essere usato per identificare sostituzioni e contaminazioni nelle tisane, nelle spezie e nelle farine. Funziona un po’ meno per alimenti come i minestroni, costituiti da molti ingredienti mescolati tra loro, per via delle analisi più lente e complicate richieste. La migliore ricezione del sistema si rileva tra le aziende che producono e distribuiscono alimenti molto costosi, come lo zafferano, la bottarga di tonno e i tartufi, per i quali la certificazione genetica può dare un’assicurazione in più al consumatore. 

Una volta che costi e tempi di analisi diminuiranno, il DNA barcoding potrebbe estendersi al mondo dei cibi freschi e di largo consumo. Potrebbe, per esempio,  diventare uno strumento utilissimo per certificare l’origine del latte utilizzato per la mozzarella di bufala campana Dop  effettuando un test  quando la materia arriva nel caseificio prima di iniziare la produzione. 

Insomma, è probabile che nel prossimo futuro, accanto alle analisi chimiche e microbiologiche di routine, ci saranno anche quelle del DNA. Perché no?
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