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I consumi di frutta degli italiani, tra l’incremento durante il Covid e la discesa per i venti di guerra

Un tempo bene di lusso, la frutta è oggi considerata un alimento indispensabile per la salute, parte integrante della Dieta Mediterranea, ma la sua presenza nell’alimentazione delle famiglie italiane è ancora troppo poco significativa. Per evitare gravi carenze, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) raccomanda che il consumo giornaliero sia di almeno 400 g di frutta e verdura al giorno, una raccomandazione decisamente al ribasso rispetto a quanto previsto dalle linee guida nazionali, che consigliano di superare i 700 g, con variazioni di peso in base al fatto che si scelga la frutta o la verdura. In entrambi i casi, comunque, l’indicazione è quella di consumarne complessivamente almeno cinque porzioni quotidiane (il concetto di porzione varia e di conseguenza varia anche il peso attribuito a ciascuna).

Secondo alcune statistiche, prima del Covid gli italiani mangiavano mediamente, tra frutta e verdura, 230 kg l’anno (630 g al giorno). L’Ufficio statistico dell’Unione europea riferisce che, nel 2019, una persona su tre non consumava frutta o verdura ogni giorno e solo il 12% della popolazione ne consumava le porzioni consigliate. Tra gli Stati membri, l’assunzione giornaliera corretta era più frequente nel nord Europa. L’Irlanda, con il 33% della popolazione, risultava in vetta alla classifica, seguita dai Paesi Bassi, la Danimarca e la Francia, mentre l’Italia risultava quindicesima con il 10,5%. I consumatori italiani di una dose adeguata di frutta e verdura risultavano quindi al di sotto della media europea e inferiori a quelli di altri paesi dell’area mediterranea come Grecia, Malta e Spagna. La pandemia ridefinisce però la mappa del consumo di ortofrutta in Italia, cambiando i comportamenti d’acquisto. Secondo Nomisma, nel 2020 si moltiplicano le occasioni di consumo e un italiano su tre mangia frutta anche fuori dai pasti, per merenda o come spuntino. Vi è anche una diversificazione dei canali di vendita e, nel 2020, il 22% dei consumatori acquista questi prodotti online o tramite ordini telefonici, con attenzione per la varietà, la stagionalità, l’origine, il biologico e la tracciabilità. Nel periodo del Covid, secondo Istat, negli italiani l’alimentazione incide sulle spese familiari per il 17,7%, la frutta per l’1,6% e la verdura per il 2,4%. In una spesa media mensile familiare, calcolata in 2.500 euro, la frutta incide per 39 euro e la verdura per 60 euro. I frutti più consumati dagli italiani risultano essere le mele, seguite dalle banane. Ora però, quando l’emergenza Covid si sta riducendo, i venti di guerra cambiano speranze e prospettive.

La guerra in Ucraina influisce infatti anche sui consumi di frutta, in particolare a causa dell’aumento dei prezzi. Secondo un’analisi di Coldiretti su dati del Crea, i rincari energetici producono l’aumento del 51% dei costi correnti per la produzione della frutta italiana. Questo avviene perché l’energia serve per il riscaldamento delle serre, la movimentazione dei macchinari, la produzione di fertilizzanti e di imballaggi. Questa crisi colpisce quindi direttamente imprese e famiglie, provocando un’inversione di tendenza nei consumi. Si tratta di uno scenario preoccupante per il settore ortofrutticolo, che riguarda il 40% dell’agricoltura italiana ed è già colpito dai cambiamenti climatici. I redditi delle famiglie sono oggi decurtati dall’inflazione. A marzo 2022 l’aumento medio dei prezzi in Italia rispetto al 2021 è intorno al 7%. Maggiore è però per la frutta, che cresce dell’8,1% e aumenta addirittura del 17,8% per la verdura, con una conseguente previsione complessiva di incremento fino a 2.674 euro nelle spese annue famigliari. La più probabile conseguenza dell’aumento dei prezzi della frutta e della diminuita disponibilità finanziaria delle famiglie provocata dall’inflazione sarà quella di ritornare a considerarla un alimento di lusso. Si prevede quindi una riduzione dei consumi. Tale contrazione, però, non sarà uniforme e avrà probabilmente una connotazione sociale, colpendo le famiglie finanziariamente più fragili e quelle a reddito fisso, come quelle degli impiegati, dei dipendenti e i pensionati (43,7% degli italiani). Non colpirà invece le famiglie abbienti, con un reddito superiore ai 55 mila euro (4,6% degli italiani). Si parla molto, oggi, dell’importanza dei consumi di frutta per l’economia nazionale, si discute invece meno del suo valore per la salute degli italiani, soprattutto di quelli socialmente più fragili. Forse potrebbe valere la pena di considerare la faccenda con maggiore attenzione.

Concime dagli scarti della coltivazione dei funghi, una risorsa che oggi si rivela particolarmente utile

La guerra in Ucraina, oltre a essere una tragedia per milioni di persone che ogni giorno rischiano la vita e si vedono costrette a lasciare il proprio Paese, ha un forte impatto economico non solo sulla stessa Ucraina, ma anche su molti territori europei ed extra europei. Quest’impatto non riguarda esclusivamente il gas e le fonti energetiche, ma anche diverse produzioni agricole, come i cereali, in particolare il mais, e l’olio di girasole. Tra i prodotti tradizionalmente esportati dalle regioni coinvolte nel conflitto spiccano però anche i fertilizzanti. Ora che queste esportazioni sono bloccate, l’impatto di tale carenza, probabilmente trascurato dai non addetti ai lavori, coinvolge tutte le coltivazioni e rischia di essere significativo anche per il nostro Paese.

Secondo un’analisi di Coldiretti su dati Istat, infatti, importiamo annualmente in Italia ben 136 mila tonnellate di fertilizzanti dall’Ucraina, 171 mila dalla Russia e 71 mila dalla Bielorussia. La mancanza di 378 mila tonnellate complessive di concimi potrebbe avere ripercussioni negative sia sulle semine primaverili, come mais, girasole e soia per l’alimentazione degli animali, sia su quelle autunnali, come il frumento. Per far fronte a questo problema emergono diverse soluzioni, una delle più efficienti sarebbe quella di sfruttare gli scarti delle filiere agroalimentari. Un esempio particolarmente interessante in questo senso è rappresentato da ciò che rimane dopo la coltivazione dei funghi: il cosiddetto substrato spento di fungaia.

“I funghi champignon (Agaricus bisporus) sono coltivati su di un substrato fatto di paglia e pollina o letame di cavallo – spiega Andrea Prando, presidente dell’Associazione italiana fungicoltori –. Questo materiale viene trattato in modo da eliminare eventuali parassiti e abbassare la carica batterica, poi viene ‘seminato’ con il micelio per la crescita dei carpofori, cioè della parte dei funghi comunemente intesi, costituita da gambo e cappello. Un substrato di questo tipo è utilizzabile per quattro cicli produttivi, poi deve essere eliminato, perché la sostanza nutritiva non è più adeguata alla coltura dei funghi. A quel punto può quindi essere utilizzato direttamente come fertilizzante, senza alcun tipo di intervento”.

La produzione di funghi coltivati in Italia ammonta a circa 60 mila tonnellate all’anno, che corrispondono a oltre 200 mila tonnellate di substrato spento. “Il substrato spento di fungaia è stato inserito nell’elenco dei prodotti che possono essere utilizzati come fertilizzanti solo da due anni, ma non è ancora valorizzato in questo senso – continua Prando –. Attualmente è usato soprattutto nel florovivaismo, un settore che non ha particolari esigenze, invece, essendo ricco di sostanze nutritive, sarebbe più ragionevole utilizzarlo per l’agricoltura. Le ricerche condotte dall’Università di Padova, che ci ha accompagnati nel percorso per il riconoscimento di questo ‘scarto’ come fertilizzante, mostrano che è particolarmente indicato per concimare colture pregiate, come il porro. Ha dato inoltre risultati interessanti anche con il finocchio, il pomodoro e il radicchio. Si tratta insomma di un concime di ottima qualità, che può essere reperito a prezzi molto bassi”. La sua diffusione in agricoltura sarebbe una scelta più ecologica rispetto al concime chimico, e si tratterebbe inoltre di un modo per chiudere la filiera in un’ottica di economia circolare.  

The Good Fish Guide, la guida per chi vuole scegliere il pesce in modo consapevole

Per chi vuole mangiare pesce facendo scelte consapevoli per non danneggiare il mare, sia durante gli acquisti che scegliendo da un menu, c’è una nuova guida molto intuitiva e chiara, disponibile anche come app: la Good Fish Guide curata dalla Marine Conservation Society britannica.

Secondo l’Onu, esistono molte specie di pesci, molluschi e cefalopodi che non si dovrebbero pescare e quindi neppure mangiare, perché sono a rischio estinzione o comunque in condizioni di conservazione tali che ulteriori catture causerebbero squilibri a tutto l’ecosistema marino. Le Nazioni Unite considerano la pesca come attività non sostenibile, dato che il 90% degli stock ittici sono depauperati. Ci sono specie che, al contrario, non sono in sofferenza, e dunque possono essere pescate e mangiate, se la pesca o l’allevamento sono avvenuti nel rispetto delle normative, anche perché fanno bene alla salute. Ma per il consumatore non è sempre facile conoscere le condizioni di una certa specie. Ecco allora la guida, che contiene valutazioni su oltre 120 specie e che offre anche un motore di ricerca per cercare le valutazioni di altre specie non esplicitamente menzionate. Ogni pesce, mollusco o crostaceo si presenta accompagnato da bollini colorati che, analogamente ai semafori alimentari, indica con il rosso le specie da evitare, con il giallo quelle verso cui essere cauti e con il verde quelle per le quali non ci sono, per ora, particolari problemi. In molti casi le valutazioni sono di più colori contemporaneamente, perché la sostenibilità dipende dalle condizioni degli stock e dal mare cui si fa riferimento, così come dalle modalità di cattura. Ma in altri casi, come per la razza e tutte le specie simili, il rosso è senza sfumature, così come lo è il verde per le aringhe e il pesce azzurro. In grigio sono invece indicate alcune specie (poche) sotto indagine.

Cliccando su ogni pesce, crostaceo o mollusco, raffigurati con disegni molto belli e chiari, si vedono poi le modalità di pesca o acquacoltura da preferire, ed eventuali altri pesci con i quali sostituire quello scelto per avere un apporto nutrizionale paragonabile senza ricorrere alle specie minacciate. Le prime cinque specie per sostenibilità sono il merluzzo, il tonno, i gamberi, il salmone e l’eglefino, anche se non mancano diverse criticità in ciascuna delle cinque, a seconda delle situazioni specifiche.

Il sito contiene inoltre ricette sostenibili e informazioni tanto sui benefici del pesce quanto sui sistemi di pesca e acquacoltura, sulle certificazioni e su altri aspetti. Anche se è riferito al Regno Unito, molte informazioni possono essere utili per il pubblico di qualunque paese, visto che molte filiere ittiche sono internazionali.

QR code: l’etichetta virtuale che espande le informazioni oltre lo spazio fisico delle confezioni

Espande virtualmente all’infinito l’etichetta e aumenta la trasparenza dell’azienda, ma è utile solo se le aziende lo utilizzano bene. Stiamo parlando del QR code (Quick Response code: codice di risposta rapida) che si può trovare sulle confezioni dei prodotti alimentari. Si tratta di quel simbolo quadrato bidimensionale che si legge con lo smartphone ed esiste da tempo, ma solo recentemente è diventato di uso comune, perché ha consentito, tra le altre cose, di verificare la validità dei green pass. La possibilità di inserire questo codice sui pacchi degli alimenti è stata introdotta da oltre una decina d’anni. All’inizio, però, era una scelta di pochi pionieri e in pochissimi tra i consumatori ne conoscevano il significato. Che evoluzione ha avuto il suo impiego sui pack? Quali sono le sue potenzialità?

La questione principale è se sia davvero utile e interessante per le persone a cui si rivolge. Effettivamente, se lo si intende come strumento per scegliere quale prodotto comprare mentre ci si trova in negozio, bisogna considerare che difficilmente qualcuno si impegna nella lettura di dati lunghi e complessi o nel guardare un video mentre sta facendo la spesa al supermercato. In questo caso, quindi, sono utili quei codici che offrono solo qualche indicazione puntuale per spiegare bene un’etichetta o per aggiungere un’informazione importante che non trova fisicamente posto sulla confezione. Diverso è invece il contenuto che le aziende possono proporre se lo usano come supporto di approfondimento, da consultare a casa, per conoscere meglio la storia e le caratteristiche o le modalità d’uso di un prodotto già acquistato.

Gli alimenti che riportano un QR code sulla confezione già da tempo non mancano, tra questi c’è per esempio Gran Moravia, un formaggio duro da grattugiare simile al Grana Padano prodotto in repubblica Ceca. In questo caso il codice, definito dall’azienda come “etichetta multimediale d’origine”, è focalizzato sui luoghi e le modalità di una produzione caratterizzata da un approccio sostenibile e orientata al risparmio delle risorse. Un altro esempio è rappresentato dalla pasta Del Verde, che ha inserito questa tecnologia nel suo progetto di rilancio già nel 2010. L’uso di questo sistema si è rivelato poi particolarmente significativo nel settore degli alcolici. Alcuni vini, come quelli di Barone Ricasoli e Cantina Carpineto, sono stati tra i pionieri dell’impiego del QR code e, a partire dal prossimo gennaio, quello di vini & C. sarà il primo mercato nel quale è la stessa Politica agricola comune dell’Europa ad aver dato l’indicazione di fornire ai consumatori le informazioni attraverso un QR code. Quest’ultimo indirizzerà a un’etichetta elettronica completa con l’elenco degli ingredienti e la tabella nutrizionale.

Un impiego particolare nel quale sono state sfruttate le potenzialità di questo strumento è quello dell’etichetta narrante per le persone ipovedenti. Una sorta di audio-etichetta sviluppata nel 2020 in collaborazione con l’Unione italiana ciechi ed ipovedenti di Cosenza e la start up Sisspre, applicata sperimentalmente dall’azienda agricola Oli Tucci e arricchitasi in un secondo momento di contenuti anche per normovedenti con video, testi e foto sulle tematiche della tracciabilità, dell’origine, dei metodi di coltivazione e di produzione. Un altro uso caratteristico di questa tecnologia è quello di garantire una filiera tracciata tramite Blockchain. Tale uso, applicato dal 2019 sulle confezioni delle Mozzarelle di bufala campana Dop dell’azienda Spinosa, consente a chi compra un prodotto di verificare, per ogni specifico lotto, tutti i passaggi della catena produttiva, dalla stalla in cui è stato munto il latte fino al luogo e al momento del confezionamento, passando, naturalmente, per la fase di caseificazione vera e propria. Una verifica che, se ad alcuni potrebbe sembrare eccessivamente approfondita, può rivelarsi utile e particolarmente interessante per avere accurate informazioni e garanzie sull’origine e la sicurezza di ciò che si acquista.

Grana Padana Dop, il disciplinare e relativi controlli

“L’Italia ha norme sanitarie molto stringenti, integrate da un disciplinare rigoroso, con l’applicazione garantita da controlli continui”. Francesco Masoero, professore di Nutrizione e alimentazione animale all’Università Cattolica di Piacenza, sintetizza così la catena che caratterizza la produzione e commercializzazione delle soluzioni con il bollino dop, in particolare il Grana Padano, formaggio tipico del territorio.
 
“Sull’alimentazione dei bovini siamo all’avanguardia, ma queste costituiscono solo la cornice generale, all’interno della quale si innestano le norme relative al disciplinare, che sono più restrittive perché l’obiettivo è legare la produzione del Grana Padano al proprio territorio di produzione” racconta. In concreto questo significa rispettare la tradizione del Grana Padano e quanto previsto dal disciplinare di produzione, secondo cui l’alimentazione delle bovine da latte è costituita da foraggi verdi o conservati. Nella razione giornaliera non meno del 50% della sostanza secca deve essere apportata da foraggi con un rapporto foraggi/mangimi, non inferiore a 1. Inoltre, almeno il 75% della sostanza secca dei foraggi della razione giornaliera deve provenire da alimenti prodotti nel territorio di produzione. L’articolo 4 del disciplinare di produzione indica gli alimenti ammessi, come i foraggi di prati permanenti, di erba medicatrifogli e in particolare il mais, che è la coltura caratteristica.
 
Il controllo degli alimenti che ogni produttore somministra alle bovine da latte viene effettuata da un ente terzo, CSQA, “che è l’Ente di certificazione, indipendente dal consorzio di produzione, e si occupa di verificare che tutti gli alimenti e i mangimi siano coerenti con quanto previsto dalla legislazione e dal disciplinare di produzione del Grana Padano”, sottolinea Masoero.
 
Nel corso della verifica ispettiva presso i produttori latteCSQA controlla la corrispondenza delle condizioni riscontrate con quanto comunicato nella domanda di ammissione alla filiera e la capacità del soggetto produttivo di soddisfare i requisiti disciplinati, in relazione alle specifiche attività del richiedente, che sia un produttore o un raccoglitore di latte, un trasformatore, un grattuggiatore o stagionatore.
 
Inoltre, il prodotto non prima del compimento del nono mese di stagionatura, viene sottoposto alla valutazione dell’esperto su forme di Grana Padano scelte a caso.

Un complesso sistema di controlli che può sfuggire in parte ai consumatori “ma che aumenta il valore aggiunto di questo prodotto ed è da sempre la garanzia di qualità su ciò che arriva sulle tavole dei consumatori”, conclude il professore.

Largo ai dolcificanti vegetali: viaggio tra le nuove proposte di sostituti dello zucchero

Il panorama dei dolcificanti sostitutivi dello zucchero si amplia, grazie a nuove molecole per lo più di origine vegetale, ma lavorate secondo le tecnologie più avanzate, pronte sbarcare nei mercati di tutto il mondo. Tra le più interessanti, secondo FoodNavigator, ci sono le taumatine 1 e 2, derivanti dalla pianta tropicale Thaumatococcus danielli, che l’azienda Conagen ha annunciato di essere pronta a produrre su larga scala. Le taumatine hanno ciascuna caratteristiche proprie, ma entrambe hanno un potere dolcificante valutato 3mila volte quello dello zucchero, se raffrontate in peso (e ben 100mila su base molare, unità di misura chimica). Sono già state approvate in Giappone, Israele ed Europa (con la sigla E957), mentre negli Stati Uniti sono state incluse nella categoria dei Gras (sostanze ritenute sicure fino a prova contraria) come aromi (con la sigla FEMA GRAS 3732).

Ci sono poi le nuove evoluzioni della stevia, per ora proposte negli Stati Uniti. Cargill ha presentato EverSweet+ClearFlo, un complesso messo a punto nel 2019 nel quale alla stevia è stato unito un aroma naturale che ne corregge il retrogusto (spesso metallico), ne migliora solubilità e stabilità e ne velocizza la dissoluzione. Per questi motivi, secondo l’azienda, sarebbe particolarmente adatto alla preparazione delle bevande dolcificate, perché non richiede riscaldamento delle soluzioni e permettere di accorciare i tempi, vista la rapidità di scioglimento.

C’è poi la californiana Sweegen, che ha lanciato Ultratia, a base di brazzeina, un altro dolcificante ottenuto da una pianta tropicale dell’Africa occidentale, la oubli (Pentadiplandra brazzeana Baillon), da cui si ricava anche un altro edulcorante, la pentadina, scoperta nel 1989. La brazzeina è stata identificata nel 1994 ed è dotata di un potere dolcificante da 500 a 2mila volte quello dello zucchero, stabile al calore e in acido (in realtà in un ampio intervallo di pH), facilmente solubile e anch’essa priva del retrogusto amaro tipico di molti dolcificanti sintetici. Queste caratteristiche, sempre secondo l’azienda, la renderebbero particolarmente adatta alle lavorazioni tanto delle bevande quanto degli alimenti solidi come da quelli da forno. Ma la brazzeina ha anche un’altra dote che potrebbe farla diventare molto popolare: ha un indice glicemico pari a zero, e può quindi essere utilizzata dai diabetici e da chi segue una dieta chetogenica o a bassissimo contenuto di carboidrati.

Oltre ai dolcificanti puri, ci sono poi le sostanze che puntano sulla modulazione del gusto dolce. La Icon Foods, per esempio, propone CitruSweet e ThauSweet, due molecole che potenziano la dolcezza di edulcoranti come la stevia e il monk fruit (Siraitia grosvenorii) assicurando – questa la promessa – un sapore equilibrato. Il primo, CitruSweet, contiene il bioflavonoide naringina che si ricava dalla buccia degli agrumi, è 1.500 volte più dolce dello zucchero e ha una caratteristica molto particolare: conferisce un gusto dolce che si percepisce gradualmente, e impiega da 30 a 45 secondi per raggiungere la pienezza. ThauSweet, invece, è un altro derivato della Thaumatococcus danielli, cioè delle taumatine, e dà un gusto che dolce resta percepibile sulla lingua per almeno cinque minuti.

Infine c’è l’approccio basato sulla riduzione dello zucchero. Per abbassare il contenuto di zuccheri (per esempio fruttosio, glucosio o saccarosio) nelle bevande, in primo luogo nei succhi di frutta, si aggiungono microrganismi non geneticamente modificati che li scindono e li trasformano in fibre, senza compromettere le altre sostanze nutritive presenti. Si tratta, di fatto, di una fermentazione, da compiere durante la lavorazione. 

L’idea – e la tecnologia per realizzarla – è della Better Juice, un’azienda israeliana nata in seguito a un progetto finanziato con i fondi europei di Horizon 2020. Il calo degli zuccheri andrebbe dal 30 all’80% (il valore ideale sarebbe compreso tra 25 e 30%) e ciò potrebbe consentire ad altre aziende che se ne servissero di scrivere qualcosa come ‘a basso contenuto di zuccheri’, una dicitura che potrebbe risultare molto attraente per i consumatori.

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