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Il bilancio del sistema agroalimentare italiano

Il sistema agro­-alimentare, inteso come agricoltura, silvicoltura e pesca, si conferma settore chiave della nostra economia, in tutte le sue componenti (agricoltura, agroindustria e commercio all’ingrosso e al dettaglio e ristorazione), e raggiunge un peso del 15% del Pil italiano con 522 miliardi di euro. Messo alla prova dalla pandemia, il sistema ha saputo essere resiliente rispetto alla media generale dell’economia. Sono questi i dati estrapolati dall’Annuario dell’Agricoltura italiana 2019 (la fonte più autorevole e completa per comprendere lo stato del settore), realizzato dal Crea con il suo Centro Politiche e Bioeconomia. Nonostante la superficie nazionale sia circa la metà di quella spagnola e francese, l’agricoltura italiana conferma la sua leadership europea: è la prima agricoltura d’Europa per valore aggiunto e la terza per produzione lorda vendibile. L’Italia è primo produttore mondiale di vino in volume e primo produttore europeo in valore nella produzione di ortaggi. Nel 2019 il valore della produzione agricola è stato di 57,3 miliardi di euro, in linea con l’anno precedente, di cui oltre il 50% dovuto alle coltivazioni, il 29% circa agli allevamenti e la restante parte alle attività di supporto e secondarie.  Indiscusso il contributo dell’agricoltura e dell’industria alimentare (incidenza sul settore del 64%) alla bioeconomia, che, con un fatturato in crescita (+1,3%) di oltre 324 miliardi di euro, costituisce ormai uno degli elementi di forza dell’economia italiana. Le produzioni di qualità certificata (Dop-Igp) che, meglio di altre, hanno fatto fronte alle difficoltà legate alla pandemia, si confermano tra le più dinamiche dell’agro-alimentare, con un valore che raggiunge i 17 miliardi di euro (+oltre il 4%). Sempre più significativa è la crescita delle attività connesse all’agricoltura, ormai oltre un quinto del valore complessivo della produzione agricola: l’agriturismo con +3,3% in valore e +4,1% di aziende nel solo 2019, (brusca flessione nel 2020 per le restrizioni conseguenti alla pandemia) e il contoterzismo (+1,7% in valore). Dal punto di vista strutturale sono oltre 1,5 milioni le aziende agricole, di cui il 27% sono imprese che intrattengono rapporti stabili di mercato. Si conferma rilevante il sostegno pubblico al settore agricolo, circa 11,9 miliardi di euro nel 2019, ma in calo rispetto agli anni precedenti: dal 2015 al 2019, infatti, si è verificata una riduzione oltre 1,3 miliardi di euro (-10%), quasi totalmente derivante da minori agevolazioni nazionali. Sul fronte degli scambi commerciali, come evidenziato dal Rapporto sul commercio estero 2019, netta è stata la riduzione del deficit della bilancia agro-alimentare italiana, sceso largamente al di sotto di 1 miliardo di euro nel 2019, a fronte dei 5 miliardi del 2015 e degli oltre 9 miliardi del 2011.  I settori dell’export più colpiti dagli effetti del Covid-19, nel secondo trimestre 2020, sono stati il florovivaismo, le carni, i prodotti dolciari e il vino, parzialmente compensati dalla crescita di altri importanti prodotti del Made in Italy, come la pasta, le conserve di pomodoro e l’olio di oliva. Il settore della pesca e dell’acquacoltura ha ampiamente risentito della crisi pandemica, con un calo della domanda di prodotto fresco (-29% in valore a marzo e -17% ad aprile). In termini di scambi commerciali con l’estero, il settore è tra i più colpiti dagli effetti delle misure di contenimento del Covid-19 e dalla conseguente crisi economica (-16% in valore le importazioni nel I semestre 2020). Le imprese di acquacoltura hanno subìto una forte riduzione nelle vendite, soprattutto tra marzo e aprile, ad eccezione del canale della grande distribuzione. Le attività di pesca hanno cercato di adattarsi alle richieste del consumo domestico, anche attraverso il ricorso a nuove modalità di commercializzazione, quali la vendita diretta, le prenotazioni a distanza, gli acquisti on-line e le consegne a domicilio. 

Nel carrello trionfa la spesa italiana

La nuova edizione dell’Osservatorio Immagino ha elaborato i dati di vendita e le informazioni presenti sulle etichette di oltre 115 mila prodotti di largo consumo, alimentari e non, venduti in supermercati e ipermercati italiani. Su questo enorme gruppo di prodotti l’Osservatorio ha organizzato un mega carrello della spesa suddiviso in 10 panieri che rappresentano altrettanti fenomeni e tendenze di consumo. Tra questi c’è “l’italianità”, ovvero la presenza di un’indicazione che richiama alla regione o all’origine italiana, seguito dall’assenza di un ingrediente (per esempio senza lattosio o senza glutine) o dalla sua presenza (con fermenti lattici), oppure dall’indicazione per una categoria di consumatori (ad esempio “per vegetariani”), oppure classificati in base a una caratteristica merceologica (biologico).  Sono oltre 21 mila i prodotti alimentari venduti in supermercati e ipermercati che evidenziano in etichetta la loro “italianità”. Lo fanno in vario modo, inserendo diciture, dichiarazioni o immagini relativi al nostro paese. Per la classificazione sono state analizzate le caratteristiche rilevate sulle etichette e sul packaging del settore food, selezionando quelli che riportano claim del tipo “made in Italy”, “product in Italy”, “solo ingredienti italiani”, “100% italiano” o le indicazioni geografiche europee (come Igp, Doc, Dop e Docg), oppure la “bandiera italiana” o il nome della regione di riferimento. Tra le immagini più utilizzate c’è senz’altro la bandiera italiana, che campeggia sul 14,9% dei prodotti venduti in super e ipermercati. A giugno 2020 questo paniere ha registrato vendite in aumento del +5,3% rispetto al giugno 2019. La ragione è da ricercare anche della maggior presenza del tricolore su un ampio numero di categorie, di cui gli italiani hanno aumentato gli acquisti durante il lockdown, come uova, surgelati vegetali, olio extravergine di oliva, sughi pronti, latte Uht, avicunicoli di quarta lavorazione, birre e affettati. In calo, invece, sono risultati le verdure di quarta gamma e il latte fresco. Nei 12 mesi rilevati è proseguita la crescita delle vendite dei prodotti accomunati dal claim “100% italiano”, che hanno una quota numerica del 7,0%; in particolare in mozzarelle, latte Uht, olio extravergine di oliva, affettati, uova, passate di pomodoro, surgelati vegetali. In lieve flessione, invece, il claim “prodotto in Italia”. Un altro aspetto ricercato dai consumatori come emblema della tipicità agroalimentare italiana è costituito dalle indicazioni geografiche europee, di cui il nostro Paese detiene la leadership in ambito Ue. Si tratta di un settore che continua a guadagnare spazio nella spesa alimentare delle famiglie. L’Osservatorio Immagino rileva che Doc (Denominazione di origine controllata) e Dop (Denominazione di origine protetta), Docg (Denominazione di origine controllata e garantita) e Igp (indicazione geografica protetta) sono sigle sempre più presenti sulle confezioni dei prodotti e in crescente aumento. L’indicazione geografica europea più rilevante in termini di vendite è la Dop, arrivata a contribuire per l’1,7% alle vendite di supermercati e ipermercati. Anche nell’anno finito a giugno 2020 il paniere dei prodotti Dop si è confermato tra i più performanti, beneficiando di un incremento del +12,3% delle vendite. Il merito sta soprattutto nel formaggio Grana che ha dato un importante impulso a questa crescita, seguito dai formaggi da tavola e dagli affettati. L’Osservatorio Immagino segnala la continua crescita dei prodotti “senza”, ossia caratterizzati dall’assenza di un ingrediente, di un additivo o di un nutriente, dal sale ai coloranti. La lista comprende ad esempio “pochi zuccheri”, “poche calorie”, “senza zucchero”, “senza olio di palma”, “senza grassi idrogenati”, “senza sale”, “senza aspartame”, ”senza conservanti”, ”senza Ogm”. Secondo l’Osservatorio su 17 diciture del segmento “senza” 12 hanno rilevato performance positive di vendita. A guidare la crescita del segmento dei “senza” registrata nell’ultimo anno sono stati principalmente alcune diciture come: “senza antibiotici”, “ridotto contenuto di zuccheri”, “senza additivi” e “senza glutammato”. L’indicazione “senza conservanti” è da sempre uno dei capisaldi del mondo del free from e resta tuttora la più importante. Nei 12 mesi analizzati è proseguita anche la crescita delle vendite dei prodotti che segnalano in etichetta la riduzione o l’eliminazione degli zuccheri. In parallelo altre diciture hanno registrato un trend negativo, in particolare quelle relative al ridotto contenuto di grassi saturi e grassi idrogenati, di sale e di calorie. Nei 12 mesi analizzati è continuata anche la crescita delle vendite dei prodotti che segnalano in etichetta la riduzione o l’eliminazione degli zuccheri. Quello che è stato uno dei fenomeni più rilevanti del mondo del free from e continua a restare sulla cresta dell’onda. Sono stati, invece, gli affettati, seguiti da würstel, prodotti avicunicoli, preparati per brodo e passate di pomodoro ad aver trainato le vendite dei prodotti con il claim “senza additivi”. La scritta  più performante del paniere dei “senza…” in quest’edizione dell’Osservatorio Immagino è stata però “senza antibiotici”. Un altro segmento interessante è quello delle integrazioni ovvero dei prodotti che evidenziano la presenza di un ingrediente in più. Ritroviamo in questo aggregato prodotti come farine, cracker, pesce preparato panato surgelato, biscotti che evidenziano sull’etichetta con frasi del tipo: “ricco di fibre”, “con Omega 3”, “integrale”, “ricco di ferro”, “fonte di calcio”, “multicereale”, “con vitamine”. 

Consumi: + 29% acquisti pasta 100% made in Italy

Fanno segnare l’aumento record del 29% degli acquisti di pasta Made in Italy che utilizza solo grano tricolore con 8 consumatori su 10 (82%) che con l’emergenza Covid ritengono sia importante sostenere l’economia e l’occupazione del territorio anche nel momento di fare la spesa, mentre anche all'estero segnano un balzo del 15,3% le esportazioni di pasta pugliese nei primi 9 mesi del 2020. Le migliori varietà di grano duro selezionate, da Emilio Lepido a Furio Camillo, da Marco Aurelio a Massimo Meridio fino al Panoramix e al grano Maiorca, sono coltivate dagli agricoltori sul territorio pugliese che produce più di 1/4 di tutto il frumento duro italiano.  L’allarme globale provocato dal Covid ha fatto emergere una maggior consapevolezza sul valore strategico rappresentato dal cibo e dalle necessarie garanzie di qualità e sicurezza. Si registra uno storico ritorno al passato rispetto alle prime fasi dell’industrializzazione e urbanizzazione del Paese quando la conquista della modernità passava anche dall’acquisto della pasta piuttosto che dalla sua realizzazione in casa. Una tendenza confermata dal boom delle pubblicazioni dedicate, dalle chat su internet, dal successo delle trasmissioni televisive e dai corsi di cucina. Nell’ultimo decennio è scomparso 1 campo di grano su 5 dopo con effetti dirompenti sull’economia, sull’occupazione e sull’ambiente, una situazione aggravata dalla concorrenza sleale delle importazioni dall’estero soprattutto da aree del pianeta che non rispettano le stesse regole di sicurezza alimentare e ambientale in vigore nel nostro Paese. Sono risultate in aumento del 57% nei primi nove mesi del 2020 le importazioni di grano duro per fare la pasta dal Canada dove non sono rispettate le stesse regole di sicurezza alimentare e ambientale vigenti nel nostro Paese e sia trattato con la possibilità di utilizzare ’erbicida glifosato in preraccolta, secondo modalità vietate sul territorio nazionale dove la maturazione avviene grazie al sole. In Italia è in vigore l’obbligo di indicare la reale origine del grano impiegato nella pasta dal 13 febbraio 2018 per garantire trasparenza sulle scelte di acquisto dei consumatori e sostenere i produttori italiani impegnati per garantire qualità e sicurezza alimentare. 

Scatta etichetta made in Italy di salami, capocolli e mortadelle

Entra in vigore l’obbligo di indicare in etichetta l’indicazione di provenienza su salami, mortadella e prosciutti persostenere il vero Made in Italy e smascherare l’inganno della carne straniera spacciata per italiana. Lo rende noto la Coldiretti nell’annunciare che scade il 31 gennaio la proroga di due mesi concessa dal Ministero dello Sviluppo economico per la piena applicazione del Decreto interministeriale sulle Disposizioni per “l’indicazione obbligatoria del luogo di provenienza nell’etichetta delle carni suine trasformate”. Un appuntamento storico in un momento di grande crisi per aiutare a scegliere l’82% degli italiani che con l’emergenza Covid vogliono portare in tavola prodotti Made in Italy per sostenere l’economia ed il lavoro del territorio.  L’entrata in vigore dell’etichetta Made in Italy sui salumi è dunque un momento di svolta per i produttori italiani, duramente colpiti dal crollo dei prezzi dei maiali e dal contemporaneo aumento di quelli delle materie prime per l’alimentazione degli animali. Il risultato è che le quotazioni pagate agli allevatori di maiali sono crollate fino al -38% durante la pandemia e solo nelle ultime settimane, proprio con l’avvicinarsi dell’introduzione dell’obbligo dell’indicazione d’origine, si è registrata una timida ripresa, secondo un’analisi del Centro Studi Divulga. Il provvedimento, è importante per garantire trasparenza nelle scelte ai 35 milioni di italiani che almeno ogni settimana portano in tavola salumi ma anche per sostenere i 5mila allevamenti nazionali di maiali messi in ginocchio dalla pandemia e dalla concorrenza sleale. A preoccupare è infatti l’invasione di cosce dall’estero per una quantità media di 56 milioni di “pezzi” che ogni anno si riversano nel nostro Paese per ottenere prosciutti da spacciare come Made in Italy.   Il decreto sui salumi prevede che i produttori indichino in maniera leggibile sulle etichette le informazioni relative a: “Paese di nascita: (nome del paese di nascita degli animali); “Paese di allevamento: (nome del paese di allevamento degli animali); “Paese di macellazione: (nome del paese in cui sono stati macellati gli animali). Quando la carne proviene da suini nati, allevati e macellati in uno o più Stati membri dell’Unione europea o extra europea, l’indicazione dell’origine può apparire nella forma: “Origine: UE”, “Origine: extra UE”, “Origine: Ue e extra UE”. E consentito lo smaltimento delle scorte fino ad esaurimento. Quando la carne proviene da suini nati, allevati e macellati nello stesso paese, l’indicazione dell’origine può apparire nella forma: “Origine: (nome del paese)”. Pe scegliere salumi ottenuti da suini nati, allevati, macellati e trasformati in Italia basterà cercate la presenza esclusiva della scritta Origine Italia o la dicitura “100% italiano”.   

Europei favorevoli ad un sistema di etichettatura nutrizionale unico per tutti

Un sondaggio realizzato dalla Presidenza tedesca ha evidenziato che una larga maggioranza della popolazione dell’Unione sarebbe favorevole a un sistema di etichettatura nutrizionale armonizzato a livello europeo, pur con molti distinguo tra i diversi Paesi, anche se la maggioranza di questi si sono espressi a favore di regole uniformi piuttosto che di regole nazionali. Diversi sono i sistemi di FOPNL all’esame, sia a livello comunitario che a livello nazionale: quelli maggiormente candidabili sono i  sistemi “Nutri-Score”, “NutrIinform” e “Keyhole”. 

Contributi Ssica: giusto pagarli?

"Stazione Sperimentale per l'Industria delle Conserve Alimentari” - SSICA: per il mantenimento delle Stazioni sperimentali per l'industria debbono provvedere le imprese che esercitano le industrie per le quali la Stazione e' preordinata ed i commerci di importazione corrispondenti e gli Enti pubblici locali che vi sono tenuti. Il contributo dovuto dalle imprese viene ripartito annualmente fra esse dal Consiglio di amministrazione della Stazione in proporzione della loro capacita' di produzione.I ruoli dei contribuenti sono approvati dal Ministero dell'economia nazionale e la riscossione dei contributi viene fatta dagli esattori comunali con i privilegi delle imposte fiscali in una o piu' rate insieme a quelle delle imposte sul reddito. Tali contributi sono legittimi? La risposta in breve è si. La "storia" di questo contributo ha subito vari passaggi,  il quadro è frastagliato e complesso, ma si nota comunque una sorta di gioco di “travasi” e richiami continui fino alla disciplina attuale, per cui pare escludersi che i contributi obbligatori non siano più dovuti solo per il fatto che le originarie Stazioni Sperimentali oggi abbiano assunto connotazioni del tutto diverse (anzi, siano soggetti di diritto privato). Senza contare, poi, che ogni anno il Ministero dello Sviluppo Economico, sentita Unioncamere, decreta i criteri di determinazione e la misura dei contributi obbligatori, per cui l’eventuale illegittimità delle pretese tributarie dovrebbero essere fatte valere con ricorso che travolga anche i d.m. annuali. Si evidenzia, per altro, che gli atti non leciti adottati dal decaduto CdA sono già stati annullati, ma nessuno ha riguardato la questione dei contributi obbligatori. Quindi, in ultima analisi, l’unica strada per non pagare i contributi è iniziare un procedimento amministrativo in cui si vada a contestare a monte la liceità di SSICA quale ente regolarmente costituito.   

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