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Confimi Industria, indagine agli associati: addio allo smart working per 7 imprese su 10, previste nuove assunzioni per quasi 1 pmi su 5

Il recupero del fatturato perso a causa del covid19 non è per tutti dietro l’angolo e di certo non avverrà con l’arrivo della prossima primavera, ovvero a un anno esatto dal lockdown. È quanto emergenze dall’indagine di Confimi Industria, confederazione del manifatturiero italiano, condotta nei giorni scorsi ai propri associati.

Tempi di recupero più lenti quindi rispetto alle previsioni dell’Istat per oltre 6 industriali su 10. E se il 13% degli stessi dichiara di aver già recuperato il fatturato perso nelle settimane di blocco, c’è un 21% del campione che si sente ottimista e, guardando all’andamento del secondo semestre dell’anno, crede di chiudere il 2020 senza particolari scostamenti rispetto all’anno precedente. Ottimismo che cresce di 10 punti percentuali per gli imprenditori del sud: fatturato in linea quindi per oltre il 30% delle imprese del Mezzogiorno.

Il Centro Studi di Confimi Industria è tornato infatti a interrogare il suo campione – circa 1000 aziende – appartenenti per lo più ai settori della metalmeccanica, dell’alimentare, del settore edile e dei servizi, con in media fino a 30 addetti e un fatturato annuo che nella maggior parte dei casi si attesta sui 10 milioni di euro.

Tra i quesiti dell’indagine non potevano mancare quelli sull’occupazione, a partire dall’utilizzo di ammortizzatori sociali e lavoro da casa.

Quasi il 40% (39,8%) degli industriali ha ancora in attivo gli ammortizzatori sociali coinvolgendo poco più del 35% (35,6) del personale in forza. Percentuali che crescono nelle regioni del sud Italia: CIGO e CIGS sono attivati da oltre il 50% delle pmi e arrivano a coinvolgere il 48% dei dipendenti.

Addio all’utilizzo dello smart working per 7 aziende su 10. E se dalle precedenti indagini era già emerso che un buon 15% non aveva optato per il lavoro agile, oggi solo il 17% degli industriali ha ancora personale che lavora da remoto e, di questi, solo il 25% prevede che lo smart working possa in un prossimo futuro diventare una reale modalità di lavoro. Complice anche il settore di appartenenza, gli imprenditori di Confimi Industria prevedono smart working per i soli reparti di amministrazione e marketing.

In decisa controtendenza le previsioni sull’eventuale riduzione dell’organico una volta superato il blocco dei licenziamenti in vigore fino al 31 dicembre: il 72,7% degli industriali infatti manterrà invariato il proprio livello occupazionale.

Riduzione, e fino a un massimo di 5 unità, per il 9,5% delle imprese rispondenti, mentre il 17,8 del campione ha dichiarato di avere in previsione perfino nuove assunzioni. Percentuale che cresce e arriva al 21% per il settore della meccanica.

Non ci sono invece buone nuove sul versante del credito: 1 imprenditore su 2 ha usufruito delle misure per il credito e più dell’8% sta ancora aspettando di accedervi. L’interesse degli imprenditori del manifatturiero si è concentrata per lo più nelle richieste dei 30 mila euro (nel 45% dei casi) e in quelle da 800 mila (42%), mentre solo il 13% delle imprese ha fatto richiesta per il credito di importo superiore.

Capitolo a parte quello degli investimenti strutturali. Nonostante gli innumerevoli progetti presentati dal governo e dai ministeri per valorizzare i fondi del Recovery Fund, gli imprenditori di Confimi Industria hanno espresso preferenze nette, decretando un loro podio tra i progetti stilati dal Ministero dello Sviluppo Economico: intervenire sul credito di imposta per una produttività sostenibile (che ha trovato il favore di quasi il 40% degli imprenditori intervistati), un piano di incentivazione per la ripresa e la resilienza del settore dei servizi avanzati e le industrie innovative, (29,5%) e un progetto di specializzazione intelligente del sistema Paese e del Made in Italy (29,3).

Il cibo «Free From» vale 6,9 miliardi

Fenomeno di consumo emergente degli ultimi anni nel mercato dei prodotti alimentari è sicuramente il successo del cosiddetto “healthy food”, il cibo sano e salutare, ma anche salutistico, che continua a trovare sempre più posto nel carrello della spesa degli italiani. Largo spazio, quindi, agli alimenti biologici, ai 100% vegetali, agli integratori, al mondo degli ingredienti benefici, ma anche a quelli funzionali ricchi di uno o più nutrienti (“rich-in”), e soprattutto a quelli caratterizzati dall’assenza o dalla minore presenza di un componente (“free from”). Sono compresi in questo mondo, ad esempio, i claim “pochi zuccheri”, “poche calorie”, “senza zucchero”, “senza olio di palma”, “senza grassi idrogenati”, “senza sale”, “senza aspartame”, “senza conservanti”, “senza Ogm”.
In particolare, proprio riguardo al mondo del Free From, dall’analisi dell’Osservatorio Immagino di GS1 Italy, realizzato in collaborazione con Nielsen, emerge che questo nei dodici mesi terminanti a giugno 2020 ha sviluppato un giro d’affari pari a 6,9 miliardi di euro, in crescita di +2,2% rispetto all’anno precedente.
A guidare la crescita del mondo del Free From nel periodo analizzato sono principalmente i prodotti senza antibiotici, con un ridotto contenuto di zuccheri, senza additivi e senza glutammato; si evidenzia invece un trend negativo per i claim che fanno riferimento ad un ridotto contenuto di grassi saturi, sale e calorie.
Sempre secondo l’Osservatorio Immagino Nielsen GS1 Italy, negli ultimi quattro anni i prodotti Free From sono la macro categoria che nei supermercati e ipermercati ha fatto registrare il giro d’affari più rilevante, contribuendo nel 2019 con una quota del 26,6% al sell-out dell’intero paniere food analizzato, potendo contare sul 18,3% dei prodotti. Tra i tanti messaggi che compongono questo universo dei free from, il “senza zuccheri aggiunti” è quello che nello scorso triennio ha evidenziato la maggiore vivacità, con tassi di crescita annui mai inferiori al 5% e con un 2019 in grande progressione (+9,1%), seguito dal “pochi zuccheri” (+7,6%).
L’aumento delle vendite di questa tipologia di prodotti è stato determinato dall’espansione dell’offerta, soprattutto nei segmenti delle bevande a base di frutta, delle confetture e degli yogurt. Un’attenzione, quella degli italiani al tema delle calorie che si conferma anche nel mondo dei prodotti adatti a chi soffre di intolleranze alimentari: i best performer sono, infatti, i prodotti “senza lattosio” (+3,6% rispetto l’anno precedente), la cui offerta si espande al 4,5% dei 71mila prodotti alimentari monitorati dall’Osservatorio Immagino, potendo contare su un cospicuo ampliamento dell’offerta e sulle buone performance di segmenti come gli affettati, i panificati e i latti fermentati.

Altri due componenti ai quali i consumatori hanno prestato attenzione sono gli additivi e il sale: i prodotti “senza glutammato” sono cresciuti del 4,9% e i “senza additivi” del 2,7%, mentre le referenze “senza sale” hanno mostrato un lieve calo. Tra i principali claim più in difficoltà i “senza grassi idrogenati” (-5,7%), i “senza Ogm” (-4%) e i “senza conservanti” (-2,8%).

Giù i calici nel lockdown nel semestre peggiore di sempre

Il ‘semestre Covid-19’ (marzo-agosto) pesa anche sul commercio mondiale di vino, con una contrazione senza precedenti nella storia moderna del settore. Nei Paesi extra-Ue – secondo le elaborazioni dell’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor su base dogane – gli scambi complessivi di vino nel semestre considerato hanno subito un calo a valore del 15,2%, con una perdita equivalente di circa 1,4 miliardi di euro rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
Il decremento più significativo è relativo alle bollicine (-28,8%), che ‘sgasate’ dal lockdown perdono quota in tutti i 10 top importer, che rappresentano il 92% del mercato extra-Ue. In tutto ciò il vino italiano, pur registrando il peggior risultato degli ultimi trent’anni, riesce a contenere le perdite e a chiudere il semestre di emergenza sanitaria a -8,6%, dopo un eccellente avvio di anno. Nel primo bimestre il trend segnava infatti +14,5%.

Per il direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantovani: «In un altro periodo l’export in calo di quasi il 9% significava crisi, oggi è una mezza vittoria se si guardano i competitor, ma il bicchiere rimane comunque mezzo vuoto e la congiuntura non aiuta. Il nostro osservatorio evidenzia uno scenario sempre più asimmetrico all’interno del comparto, e a pagare sono soprattutto le piccole e medie imprese di qualità, asse portante del made in Italy. A wine2wine exhibition & forum (22-24 novembre) faremo il punto sul settore e sulle alternative commerciali direttamente con gli attori internazionali del mercato».

Stati Uniti e Svizzera, rispettivamente la prima e la terza destinazione per il prodotto tricolore, sono i Paesi che hanno contribuito a rendere meno amaro il calice italiano. Da una parte, negli Usa (-8,1%) la performance è stata meno drammatica di quella francese (-40,1%) stroncata dai dazi aggiuntivi; dall’altra la Svizzera è addirittura andata in terreno positivo (+7,5%).
La differenza nel computo finale del semestre tra le 2 superpotenze produttive mondiali sta anche nella Cina, che segna un piano sempre più inclinato (-38%) per entrambe ma i cui pesi, e relative ripercussioni, sono ben differenti.
Per l’Italia infatti il deficit si traduce in 26 milioni di euro; per la Francia in 122 milioni di euro. In crisi anche il mercato del Regno Unito, su cui si addensano anche le nubi della Brexit: -9,5% per il Belpaese e -21,6% per i transalpini, con gli sparkling in netta controtendenza sugli ultimi anni, in particolare per Parigi (-41,9%, Roma a -17,4%). Ed è proprio questa tipologia a calare di più anche in termini assoluti, con un crollo del 38,5% delle bollicine francesi e del 12% per gli spumanti italiani.

Per il responsabile dell’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor, Denis Pantini: «Il semestre marzo-agosto ci consegna una pesante diminuzione nelle importazioni di vino dei mercati terzi dove l’Italia sembra soffrire meno rispetto alla Francia alla luce di una distribuzione dei propri vini più equilibrata tra on e off trade, anche se i pessimi segnali che stanno giungendo sulla seconda ondata della diffusione del Covid-19 rischiano di appesantire ulteriormente la perdita, considerando che solitamente l’ultimo trimestre arriva ad incidere per circa il 30% sull’export complessivo dell’anno». Il semestre ha infine inciso notevolmente in termini di quote di mercato nell’extra-Ue tra i 2 market leader, con la Francia che perde 5 punti e scende al 29,3% mentre l’Italia sale al 23,5%

È di 7,7 miliardi di euro il valore delle importazioni di vino nei Paesi terzi nel ‘semestre Covid-19’ a fronte di 9,1 miliardi di euro registrati nel pari periodo del 2019. A perdere, 8 tra i 10 top buyer considerati e tutti i primi 5 principali importatori extra-Ue: Usa (-20,7%), Uk (-6,8%), Cina (-35,5%), Canada (-7,9%) e Giappone (-17,5%).
A farne maggiormente le spese proprio la tipologia che è cresciuta di più negli ultimi anni: gli sparkling pagano infatti con un -28,8% e trend negativo in tutte le piazze della domanda, con quella statunitense che paga oltre 1/3 delle vendite in valore. Perdono la metà rispetto alle bollicine i fermi imbottigliati (-14,7%), a partire dalla Cina (-35,8%), con cali sopra la media anche da parte di Usa e Australia.
In generale, la (vistosa) contrazione del prezzo medio è da addurre a 2 fattori: le grandi difficoltà del canale horeca e di conseguenza dei vini a maggior valore e le condotte speculative lungo la filiera.

Pasta day: boom consumi per prodotto simbolo dieta mediterranea (+29)

Boom della pasta Made in Italy che utilizza solo grano tricolore con gli acquisti cresciuti in valore del 29% nel 2020 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, trainati dalla tendenza dei consumatori a cercare prodotti di origine nazionale per sostenere l’economia ed il lavoro del territorio. E’ quanto emerge da un’analisi Coldiretti su dati Ismea relativi ai primi sei mesi dell’anno diffusa in occasione della Giornata Mondiale della Pasta che si è celebrata lo scorso 25 ottobre in tutto il mondo ed in Puglia .

Nei primi 6 mesi del 2020 è aumentato anche l’export di pasta dalla Puglia del 26% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, sui dati Istat/Coeweb sul commercio estero, una performance esportativa che testimonia il grande successo della produzione ‘made in’ all’estero.

Gli acquisti di pasta fatta al 100% di grano made in Italy – sottolinea la Coldiretti - sono cresciuti ad un ritmo di quasi 2 volte e mezzo superiore a quello medio della pasta secca (+12,5%) anch’essa in forte aumento anche dall’effetto dello smart working e del lungo lockdown per combattere l'emergenza covid che ha costretto i cittadini in casa nel periodo considerato. Il risultato è che già oggi un pacco di pasta su 5 venduto al supermercato utilizza esclusivamente grano duro coltivato in Italia, con la Puglia che ha prodotto nella campagna 2020 un quantitativo di grano in diminuzione fino al 30% rispetto alla media a causa del clima pazzo, ma di qualità ottima.

Pasta fatta con grano 100% made in Puglia, con il grano ‘Cappelli’, fino ad arrivare alle modaiole alternative a base di farina di legumi, di ceci, di lenticchie e di piselli,  tradizione e innovazione contraddistinguono la Puglia, il Granaio d’Italia, principale produttore italiano di grano duro con 343.300 ettari coltivati e 9.430.000 quintali prodotto.

Si registra – sottolinea la Coldiretti – uno storico ritorno al passato rispetto alle prime fasi dell’industrializzazione e urbanizzazione del Paese quando la conquista della modernità passava anche dall’acquisto della pasta piuttosto che dalla sua realizzazione in casa. Una tendenza confermata dal boom delle pubblicazioni dedicate, dalle chat su internet, dal successo delle trasmissioni televisive e dai corsi di cucina. L’Italia è il principale produttore europeo e secondo mondiale di grano duro, destinato alla pasta con un raccolto previsto di 4 milioni di tonnellate nel 2019 in calo rispetto all’anno scorso su una superficie coltivata scesa a 1,2 milioni di ettari concentrati nell’Italia meridionale, soprattutto in Puglia e Sicilia che da sole rappresentano circa il 40% della produzione nazionale.

Ora solare: il menù salva sonno

Con l’avvenuto passaggio all’ora solare  è utile alimentarsi con un menù salva sonno, per aiutarsi contro il disagio alimentato dallo stato di ansia generato dalla seconda ondata dell’emergenza Covid. Si consiglia una dieta a base di pesce azzurro  che aiuta a dormire meglio e a combattere l’insonnia, come riportato da uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Sleep Medicine in merito al consumo di pesce e ai suoi effetti sul sonno, ricerca condotta dai ricercatori dell’università di Bergen in Norvegia.

Sono alici, sarde, sgombri, orate e branzini i migliori amici contro l’insonnia – dichiara Coldiretti Puglia – per il contenuto di Omega 3, vitamina D che nell’organismo regola i livelli di melatonina, l’ormone da cui dipende il ritmo sonno – sveglia e la serotonina.  

Oltre al pesce azzurro, un aiuto importante per affrontare i disturbi causati dal passaggio all’ora solare viene anche dal consumo di pane, pasta e riso, ma anche lattuga, radicchio, aglio e formaggi freschi, uova bollite, latte caldo e frutta dolce, importanti per favorire il sonno.

A differenza di alimenti conditi con curry, pepe, paprika e sale in abbondanza ed anche salatini, alimenti in scatola e minestre con dado da cucina rendono più difficile addormentarsi. L’alimentazione è in stretto rapporto con il sonno, infatti, ci si addormenta difficilmente a digiuno o comunque non sazi, ma anche nei casi di eccessi alimentari, in particolare con cibi pesanti o con sostanze eccitanti. La Coldiretti ha stilato un vademecum degli alimenti utili per conciliare un buon sonno e quelli da morigerare per battere il jet lag da cuscino come cioccolato, cacao, the e caffè per la presenza della caffeina, oltre ai superalcolici che inducono un sonno di qualità cattiva con risveglio al mattino. Innanzitutto a cena è fondamentale evitare cibi con sodio in eccesso per cui vanno banditi alimenti con curry, pepe, paprika e sale in abbondanza, ma anche salatini e piatti nei quali sia stato utilizzato dado da cucina. Anche gli alimenti in scatola per l’eccesso di sodio e di conservanti sono da tenere lontani. Esistono invece cibi che aiutano a rilassarsi: innanzitutto pasta, riso, orzo, pane e tutti quelli che contengono un aminoacido, il triptofano, che favorisce la sintesi della serotonina, il neuromediatore del benessere e il neurotrasmettitore cerebrale che stimola il rilassamento. La serotonina aumenta con il consumo di alimenti con zuccheri semplici come la frutta dolce di stagione. Tra le verdure al primo posto la lattuga, seguita da radicchio rosso e aglio, perché le loro spiccate proprietà sedative conciliano il sonno, ma anche zucca, rape e cavoli. Un bicchiere di latte caldo, giusto prima di andare a letto, che oltre a diminuire l’acidità gastrica che può interrompere il sonno, fa entrare in circolo durante la digestione elementi che favoriscono una buona dormita per via di sostanze, presenti anche in formaggi freschi e yogurt, che sono in grado di attenuare insonnia e nervosismo. Infine un buon dolcetto ricco di carboidrati semplici ha un’azione antistress, così come infusi e tisane dolcificati con miele che creano un’atmosfera di relax e di piacere che distende la mente.

Burger vegani, il Parlamento europeo salva i sostituti della carne

Il Parlamento europeo ha salvato i burger vegani e ha respinto tutti e quattro gli emendamenti relativi al divieto di chiamare i prodotti vegetali sostitutivi della carne con nomi quali burger, salsicce, salame, carpaccio e mortadella che, con diverse sfumature e approcci più o meno drastici, puntavano a modificare profondamente la vendita dei surrogati vegetali. I produttori dovranno indicare chiaramente che l’alimento non contiene carne, ma nulla di più.

Si conclude così, almeno per il momento, la guerra ai burger vegani dichiarata dai produttori di carne, rappresentati da Copa-Cogeca (unione delle associazioni europee di agricoltori e allevatori) e sostenuti da diversi gruppi parlamentari europei, anche attraverso la campagna mediatica Ceci n’est pas une steak. Se gli emendamenti fossero stati approvati, avrebbero costretto i produttori delle cosiddette fake meat e dei surrogati vegetali, a trovare denominazioni fantasiose per le loro proposte. I quali, probabilmente, non avrebbero scoraggiato la quantità crescente di consumatori che cercano alternative vegetali alla carne, e non avrebbero rallentato la crescita di un mercato che sta conoscendo un momento d’oro.

Ha vinto, insieme a quella dei produttori, anche la linea di alcune associazioni ambientaliste, come Greenpeace, secondo cui le fake meat rispondono agli obiettivi green che la stessa Europa si è data, tra i quali vi è la promozione di un minor consumo di carne e uno maggiore di prodotti a base vegetale. Anche i consumatori, avevano sottolineato le stesse obiezioni nelle ultime settimane: sono in grado di capire la natura di un alimento a base vegetale e nessuno può confondere prodotto chiamati burger vegani con uno di carne, mentre, al contrario, trovare nomi come “dischi vegetali” avrebbe, questo sì, confuso le idee.

Naturalmente dietro le motivazioni teoriche, lo scontro è di tipo economico e tuttora non privo di contraddizioni. Da una parte i produttori di carne, filiera in crisi, cercano di proteggere la loro fetta di mercato e si appellano anche a una sentenza della Corte Europea di Giustizia del 2019 in cui si stabiliva che un prodotto a base vegetale non può avere una denominazione attribuita di solito ai prodotti con proteine animali. Dall’altra le aziende che hanno dato vita al nuovo mercato dal valore di 4,6 miliardi di dollari, e quelle che via via, sempre più numerose, si stanno aggiungendo, stanno cercando di non compromettere la fase espansiva, e sono ormai sostenute anche da alcuni big del settore. Dopo i fondatori Beyond Meat e Impossible Meat, e dopo Nestlè, Kellog’s, Findus e Unilver, infatti, anche le catene del fast food come McDonald’s (ma non in Italia) e Burger Kings si sono buttate a capofitto sui prodotti vegan, che in quattro anni dovrebbero alimentare un mercato ancora più grande, da 6 miliardi di dollari. E hanno quindi interesse a proteggere il settore. 

Ulteriore stretta, invece, per la normativa sui sostituti di latte e derivati, che devono avere una denominazione diversa da quella dei prodotti tradizionali e che ora non possono usare nemmeno termini come “sostituto dello yogurt” o “imitazione di formaggio”. Sul suo sito, Greenpeace ha commentato: “sempre più persone mangiano più prodotti di origine vegetale e passano ad alternative di carne e latticini, per la loro salute e per l’ambiente, e continueranno a chiamare i surrogati dei latticini “yogurt” e “formaggio” in ogni caso”.

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