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Torniamo ad occuparci di impresa perché l’industria italiana se ne va di Paolo Agnelli – Presidente di CONFIMI INDUSTRIA

Passata l’ubriacatura del Referendum, e in attesa che ci svanisca l’immagine di quel festival dell’ipocrisia a vari livelli a cui abbiamo assistito, è ora di tornare a parlare di economia, quella reale.

Perché? Perché la realtà dovrebbe fare più paura, i fatti allarmare di più, la situazione dell'industria manifatturiera italiana dovrebbe destare più attenzione. Ogni giorno un marchio storico della nostra industria viene acquistato da un gruppo straniero. Ogni giorno un industriale italiano decide (costretto!) di vendere e dedicarsi ad altro. Ogni giorno sempre più industrie italiane lasciano il nostro Paese per la Carinzia, la Polonia, la Romania, la Serbia, la Croazia e la Slovenia. Lì trovano tappeti rossi. Trovano costi e tasse che permettono la sopravvivenza per l'azienda e lavoro per i dipendenti e in cambio i nostri imprenditori contribuiscono alla crescita di questi paesi.

Le nostre aziende sembrano non interessare più al nostro Paese.

La politica in generale sembra puntare su altre risorse per sollevare l’Italia, per abbassare la disoccupazione.

Non può non preoccupare la perdita di grandi marchi italiani che sono stati venduti.

E ci sono tante aziende italiane, magari meno note, ma con altrettanto know how e con prodotti di valore che hanno passato la mano.

E se qualcuno commenta: “bene capitali stranieri che investono in Italia”, ci dispiace deluderlo: la lettura è diversa.

Queste società o investitori comprano i marchi, la tecnologia, acquisiscono i clienti e nell'arco di pochi anni la produzione - come abbiamo già visto e stiamo vedendo -  viene trasferita in Paesi dove è possibile produrre a prezzi competitivi. Siamo di fronte al fatto che migliaia di grossi industriali italiani lasciano l’Italia, e centinaia di grandi industrie lasciano Confindustria.

Negli ultimi 15 anni migliaia di imprese manifatturiere italiane hanno spostato la loro produzione all'estero assumendo in loco quasi 2 milioni e mezzo di lavoratori, gli stessi milioni  di lavoratori che hanno perso il posto in Italia.

La disoccupazione ha numeri che conosciamo; un giovane su due non trova lavoro. Molti pensionati emigrano in Paesi in cui riescono a sopravvivere con la loro pensione. 9 milioni di cittadini italiani vivono appena sopra la soglia di povertà. Dal 2007 ad oggi quasi 650.000 imprese hanno chiuso i battenti in un silenzio assordante, lasciando milioni di persone senza lavoro.  In questi 8 anni di crisi sono stati circa 500 i “suicidi economici”.

Ma è possibile che nessuno si accorga che senza la manifattura l’Italia è destinata ad una lenta agonia che porta alla morte?

Se ne sono accorti gli Stati Uniti. Alcuni anni fa Suzanne Berger, professoressa di scienze politiche al prestigioso MIT di Boston, una dei massimi esperti mondiali in tema di globalizzazione e competitività internazionale, ha condotto uno studio sulla manifattura, concludendo che andasse rilanciata con grande enfasi. La stessa manifattura che, tra l’altro, ha fatto da traino per la classe media americana.

Nessuno capisce che la politica economica e del credito dettata dall'Europa non si addice e non può essere applicata al nostro tessuto economico fatto di piccole e medie imprese? Veramente c’è qualcuno in grado di illudersi, e di illudere la gente, che lasciando le cose così come sono si esca da questa crisi?

C’è ancora qualcuno che crede nel “mantra” ricerca/innovazione/crescita delle PMI? Forse solo chi ignora che non si può innovare, che non si può fare ricerca, se non ci sono le risorse.

Le aziende italiane stanno lottando per pagare gli stipendi e per pagare le materie prime in quanto non sono ritenute più sufficientemente affidabili per colpa delle politiche europee sul credito. Ma non interessano a nessuno le PMI italiane?

I “pensatori” sperano nelle grandi multinazionali;  nelle banche; nei fondi di investimento ?;  Sperano nelle ricette accademiche, nelle relazioni della cattedra?

Sarebbe invece auspicabile che le nostre università andassero nelle imprese italiane a calpestare - come si dice - un po' di "lamierino" e annusassero l'odore della crisi e che finalmente capissero le difficoltà del quotidiano.

Le imprese italiane devono pagare tasse sugli immobili che utilizzano per produrre, sull’energia che consumano e sugli interessi che pagano alle banche. Le nostre industrie devono finanziare con il 25 % dei loro consumi elettrici le nuove fonti rinnovabili; hanno il costo del lavoro più alto d'Europa; hanno il costo dell'energia più alto al mondo; devono pagare una commissione bancaria sui soldi che ottengono in affidamento ma che non utilizzano; devono provvedere in proprio alle visite di controllo dei loro lavoratori; devono pagare lo psicologo aziendale alla ricerca di stress correlati al lavoro.

E ancora le nostre aziende non possono detrarre totalmente dai costi aziendali le auto in uso ai dipendenti; i costi dei telefoni fissi e portatili e tutto ciò che non è detraibile è tassato dall'Ires.

Vero, lo Stato ha bisogno di risorse, ma non può ottenerle distruggendo il proprio sistema economico per non affrontare tagli alla propria macchina statale che è gravida di agevolazioni improprie, di ingiustizie e di sprechi inverosimili. Poi però non si scandalizza di fronte al diverso trattamento riservato agli operatori delle imprese italiane, uniche realtà che possono in caso di crescita risolvere il problema della disoccupazione e del welfare italiano.

C'è voluto il ritorno della svalutazione competitiva in chiave moderna, il quantitative easing, per aumentare di poco il Pil nell’anno di Expo. Occorre un serio piano di rilancio tarato sul nostro sistema economico, una tassazione seria ma che permetta la crescita e lo sviluppo delle imprese, detassando chi investe, abolendo agevolazioni e finanziamenti a pioggia e non controllati direttamente dallo Stato. È necessaria una politica spietata che combatta l’evasione e l’elusione fiscale.

Non è più rinviabile una vera, coraggiosa, drastica politica di revisione dei costi della macchina statale. Non aspettiamoci che lo stellone italiano faccia i miracoli come un tempo. Allora c'erano le nostre PMI e i loro vulcanici imprenditori. Adesso che abbiamo liberato i nostri scaffali a Cina, India, Vietnam, Polonia, Romania, non possiamo chiedere agli imprenditori italiani l'impossibile.

Si è soliti dire: ora o mai più. Di tempo a disposizione ne è rimasto davvero poco. Confimi Industria vigilerà come sempre affinché il Paese non si fermi e non si divida a scapito di una nuova politica industriale, sapendo che la rotta polare e il vero Welfare in Italia sono rappresentati da milioni di motorini di PMI che devono essere riavviati. Queste PMI rappresentano il 97% del nostro tessuto economico. Da qui bisogna ripartire per far sì che il nostro amato Made in Italy non solo diventi un semplice slogan, ma che addirittura non si trasformi in un serio problema occupazionale. Muoviamoci quindi prima che vengano spazzate definitivamente le nostre imprese rimaste e che si perda, con esse, la parte più vitale e sociale della storia del nostro Paese che non potrà più tornare, lasciando così senza il lavoro le nostre famiglie e i nostri figli. Auspico che il futuro Governo inizi a porre mano a questa grave situazione.   
 

Scheda di spalla:

Marchi italiani venduti a gruppi stranieri:

Buitoni agli svizzeri

Parmalat ai francesi

Santarosa agli inglesi/olandesi

Valentino ai qatarioti

Alitalia agli arabi (Emirati Etihad)

Telecom ai francesi

Peroni ai sudafricani

Fiorucci agli spagnoli

Algida agli inglesi/olandesi

Carapelli agli spagnoli

Bertolli agli spagnoli

Sasso agli spagnoli

San Pellegrino agli svizzeri

Pelati AR Antonino Russo ai giapponesi

Fendi ai francesi

Safilo agli olandesi

Pininfarina agli indiani

Italcementi ai tedeschi

Pirelli ai cinesi

Ansaldo Breda ai giapponesi/Hitachi

Benetton (World duty free) agli svizzeri

Edison ai francesi

Pucci ai francesi

Bulgari ai francesi

Loro Piana ai francesi

Cova ai francesi

Gucci ai francesi

Bottega Veneta ai francesi

Richard Ginori ai francesi

Pomellato ai francesi

Brioni ai francesi

Poltrone Frau agli statunitensi

Krizia ai cinesi

Goldoni spa ai cinesi

Grom agli inglesi/olandesi

Fastweb agli svizzeri

Star agli spagnoli

Chianti classico ai cinesi

Riso Scotti agli spagnoli

Eskigel agli inglesi

Gancia ai russi

Fiorucci salumi agli spagnoli

Eridania Italia ai francesi

Boschetti alimentare ai francesi

Orzo Bimbo agli svizzeri



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