Skip to main content

Lorenzin "Sui Voucher, non facciamoci prendere dall'isteria"

L’opinione di Flavio Lorenzin, presidente di Confimi Apindustria Vicenza

Il tema caldo di questi giorni è senza dubbio quello del lavoro accessorio, meglio noto col termine voucher, sull’onda delle statistiche che ne registrano un significativo incremento e alla luce del quesito referendario proposto dalla CGIL.
“Non escludo che il sistema dei voucher possa essere migliorato, per dare maggiori garanzie ai lavoratori, – sostiene Flavio Lorenzin – ma per favore, non facciamoci prendere dal panico, tentiamo di ragionare a mente fredda. E soprattutto, non facciamone ogni volta un pretesto da campagna elettorale. La regolazione del mercato del lavoro deve avere stabilità, non può cambiare ogni sei mesi.”
Il ragionamento del leader delle PMI vicentine, parte dalla constatazione che la disciplina dei voucher è stata rivista solo tre mesi fa e proprio con l’intento di contrastare gli abusi, introducendo una comunicazione obbligatoria per tracciare l’utilizzo dei buoni-lavoro ed evitare che a questi siano affiancati pagamenti in nero. “Sarebbe buona cosa applicare le norme che ci diamo e valutarne l’efficacia in un tempo ragionevole, prima di introdurne di nuove”, puntualizza Lorenzin. Va peraltro messo in luce che la norma di legge già prevede accorgimenti e limitazioni nei settori economici tradizionali, per evitare la precarizzazione del lavoro: agli imprenditori e ai professionisti è infatti vietato erogare voucher per più di 2.000 Euro annui nominali allo stesso lavoratore, quando il limite generale è di 7.000. In effetti, anche il più recente intervento correttivo va nella stessa direzione, prevedendo la comunicazione obbligatoria solo per imprenditori e professionisti.
“E’ una situazione paradossale - commenta Lorenzin – che nessuna limitazione sia posta alle Pubbliche Amministrazioni, mentre si moltiplicano le notizie sull’utilizzo dei voucher nei Comuni e nella Sanità, con tanto di bandi pubblici. Anche questa volta c’è il rischio di dover constatare che il datore di lavoro pubblico è più disinvolto di quello privato”.
Va poi ricordato che lo strumento dei voucher è stato introdotto proprio per fare emergere dal nero talune prestazioni lavorative marginali e temporanee; se si presta a comportamenti illeciti, vanno trovate le opportune soluzioni, ma evitando di buttare via il bambino insieme con l’acqua sporca: questo è infatti l’effetto che  produrrebbe l’iniziativa referendaria della CGIL, che si propone di spazzare via l’intera disciplina.
“Se il problema è evitare la destrutturazione dei contratti di lavoro tradizionali, quantomeno nel settore manifatturiero, – chiosa infine Lorenzin – mi sento di fare una proposta ai nostri interlocutori: perché non rivalutare il lavoro intermittente o a chiamata? Per quanto anch’esso sia inviso a larga parte del mondo sindacale, ritengo che a parità di condizioni o di rischi di abuso, il lavoro a chiamata avrebbe il pregio di garantire ai lavoratori inquadramenti contrattuali e trattamenti economici analoghi a quelli dei lavoratori in forza nelle aziende; al netto ovviamente dell’intrinseca flessibilità di questo istituto. Ma se si vuol tornare ad ingessare il mercato del lavoro, il risultato potrebbe rivelarsi un boomerang, ossia il ritorno all’immersione nel lavoro nero. Per parte mia, continuo a preferire la flessibilità regolata al lavoro nero”.

BERGAMO, ACCORDO PROGRAMMATICO CONFIMI, FIM E UILM PER L’INTEGRATIVO TERRITORIALE

FIM e UILM di Bergamo, insieme a Confimi Apindustria della provincia, hanno firmato il contratto integrativo territoriale per le aziende metalmeccaniche aderenti all’associazione industriale. L’accordo interessa oltre 10.000 lavoratori distribuiti su circa 300 aziende. 
È il primo, e al momento l’unico, contratto territoriale, a livello nazionale, che segue la firma sul CCNL che Confimi ha firmato nello scorso luglio con i metalmeccanici di CISL e UIL. 
A livello provinciale, l’accordo segue un’analoga intesa riguardante la detassazione dei premi di risultato raggiunto con CGIL, CISL e UIL Bergamo. L’accordo permetterà alle aziende, in particolare a quelle di piccola e media dimensione, di fruire delle agevolazioni fiscali per importi erogati a titolo di premi di risultato di ammontare variabile a seguito di incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione.
Inoltre, le aziende potranno prevedere la conversione del premio in misure di  Welfare aziendale. E proprio il Welfare aziendale rappresenta il punto focale del contratto territoriale firmato l’antivigilia di Natale. Nell’accordo, infatti, si cita la possibilità di trasformare il premio di produttività, in tutto o in parte, “in welfare integrativo aziendale, con forme che verranno individuate sugli interessi dei lavoratori e sulle possibilità offerte dal territorio, anche con apposite convenzioni. Si valuta positivamente la possibilità – continua il testo dell’accordo – di percorsi sinergici tra contrattazione privata e contrattazione sociale con lo scopo di promuovere e valorizzare forme di welfare territoriale ad hoc”.
Il contratto “bergamasco” comprende anche la realizzazione di corsi di formazione per la sicurezza e la salute dei luoghi di lavoro; azioni specifiche per sviluppare reti per il lavoro e la salvaguardia dell’occupazione; flessibilità dell’orario nell’ottica di utilizzo delle forme di conciliazione dei tempi di lavoro e quelli familiari, lo sviluppo del lavoro agile, azioni positive per le pari opportunità, per l’integrazione dei disabili; lo sviluppo della formazione continua e progettazione di corsi per l’alternanza scuola –lavoro.
Infine, viene costituito l’Osservatorio paritetico, strumento utile a dare attuazione alle iniziative previste dall’accordo e per intervenire in caso di crisi aziendali, di progetti di riqualificazione dei lavoratori e di progetti per la realizzazione di strumenti previsti dal contratto.
“Quest’accordo dà una nuova opportunità alle PMI metalmeccaniche bergamasche – sostiene Paolo Agnelli, Presidente di Confimi Apindustria Bergamo – in quanto sarà costruito un premio di risultato detassabile, senza costi aggiuntivi per le imprese, perché utilizzeremo l’Elemento Retributivo Annuo, che è contrattualmente dovuto, impegnandoci al contempo a promuovere azioni di welfare aziendale. Al fine di creare sinergie con i sindacati, ci adopereremo a favorire azioni in materia di salute e sicurezza, formazione e in ogni altra questione che possa rispondere alle esigenze del settore metalmeccanico bergamasco. Importante è anche la costituzione di un Comitato Paritetico finalizzato a dare sostanza ai contenuti dell’accordo”.

“È una decisiva assunzione di responsabilità delle parti, per dare continuità all’accordo nazionale, e per riversare sul territorio le opportunità previste dal CCNL – dice Luca Nieri, segretario generale FIM CISL. Per la prima volta, un accordo provinciale cerca di mettere al centro la diversità territoriale, con le specificità, le problematiche e la responsabilità delle parti di trovare risposte. L’obiettivo è creare i presupposti di una redistribuzione di ricchezza, creando forme di welfare territoriale e aziendale”.

“Un accordo di programma molto importante – dice Angelo Nozza, segretario generale di UILM UIL. Aprire una discussione per tentare di costruire uno schema di “Contrattazione territoriale “ è sicuramente una novità per Bergamo. Potrebbe essere un importante precedente per esportare questa modalità anche in altre Associazioni imprenditoriali e per riuscire a dare ad un sempre maggior numero di lavoratori, risposte positive in termini economici, sulla sicurezza e sulla formazione professionale”.

CONFIMI INDUSTRIA e CGIL, CISL e Uil firmano accordo contro le molestie e la violenza nei luoghi di lavoro.

Confimi Industria e Cgil, Cisl e Uil firmano l’accordo contro le molestie e la violenza nei luoghi di lavoro che discende dall’accordo delle parti sociali europee del 26 aprile 2007.  Le parti firmatarie ribadiscono che ogni atto o comportamento che si configuri come molestie o violenza nei luoghi di lavoro, secondo le definizioni dell'Accordo, è inaccettabile; viene pertanto riconosciuto il principio che la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori non può essere violata da atti o comportamenti che configurano molestie o violenza; che i comportamenti molesti o la violenza subiti nel luogo di lavoro vanno denunciati; che le lavoratrici, i lavoratori e le imprese hanno il dovere di collaborare al mantenimento di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su principi di eguaglianza e di reciproca correttezza. Le parti svilupperanno azioni di sensibilizzazione, di diffusione, iniziative di informazione, di formazione e di monitoraggio. Con questo accordo, che segue quello sulla detassazione 2016 sui premi di risultato, viene ribadita la valorizzazione delle relazioni industriali tra Confimi Industria e Cgil, Cisl e Uil.

Torniamo ad occuparci di impresa perché l’industria italiana se ne va di Paolo Agnelli – Presidente di CONFIMI INDUSTRIA

Passata l’ubriacatura del Referendum, e in attesa che svanisca l’immagine di quel festival dell’ipocrisia a vari livelli a cui abbiamo assistito, è ora di tornare a parlare di economia, quella reale.

Perché? Perché la realtà dovrebbe fare più paura, i fatti allarmare di più, la situazione dell'industria manifatturiera italiana dovrebbe destare più attenzione. Ogni giorno un marchio storico della nostra industria viene acquistato da un gruppo straniero. Ogni giorno un industriale italiano decide (costretto!) di vendere e dedicarsi ad altro. Ogni giorno sempre più industrie italiane lasciano il nostro Paese per la Carinzia, la Polonia, la Romania, la Serbia, la Croazia e la Slovenia. Lì trovano tappeti rossi. Trovano costi e tasse che permettono la sopravvivenza per l'azienda e lavoro per i dipendenti e in cambio i nostri imprenditori contribuiscono alla crescita di questi paesi.

Le nostre aziende sembrano non interessare più al nostro Paese.

La politica in generale sembra puntare su altre risorse per sollevare l’Italia, per abbassare la disoccupazione.

Non può non preoccupare la perdita di grandi marchi italiani che sono stati venduti.

E ci sono tante aziende italiane, magari meno note, ma con altrettanto know how e con prodotti di valore che hanno passato la mano.

E se qualcuno commenta: “bene capitali stranieri che investono in Italia”, ci dispiace deluderlo: la lettura è diversa.

Queste società o investitori comprano i marchi, la tecnologia, acquisiscono i clienti e nell'arco di pochi anni la produzione – come abbiamo già visto e stiamo vedendo – viene trasferita in Paesi dove è possibile produrre a prezzi competitivi.

Siamo di fronte al fatto che migliaia di grossi industriali italiani lasciano l’Italia, e centinaia di grandi industrie lasciano Confindustria.

Negli ultimi 15 anni migliaia di imprese manifatturiere italiane hanno spostato la loro produzione all'estero assumendo in loco quasi 2 milioni e mezzo di lavoratori, gli stessi milioni di lavoratori che hanno perso il posto in Italia.

La disoccupazione ha numeri che conosciamo; un giovane su due non trova lavoro. Molti pensionati emigrano in Paesi in cui riescono a sopravvivere con la loro pensione. 9 milioni di cittadini italiani vivono appena sopra la soglia di povertà. Dal 2007 ad oggi quasi 650.000 imprese hanno chiuso i battenti in un silenzio assordante, lasciando milioni di persone senza lavoro. In questi 8 anni di crisi sono stati circa 500 i “suicidi economici”.

Ma è possibile che nessuno si accorga che senza la manifattura l’Italia è destinata ad una lenta agonia che porta alla morte?

Se ne sono accorti gli Stati Uniti. Alcuni anni fa Suzanne Berger, professoressa di scienze politiche al prestigioso MIT di Boston, una dei massimi esperti mondiali in tema di globalizzazione e competitività internazionale, ha condotto uno studio sulla manifattura, concludendo che andasse rilanciata con grande enfasi. La stessa manifattura che, tra l’altro, ha fatto da traino per la classe media americana.

Nessuno capisce che la politica economica e del credito dettata dall'Europa non si addice e non può essere applicata al nostro tessuto economico fatto di piccole e medie imprese?

Veramente c’è qualcuno in grado di illudersi, e di illudere la gente, che lasciando le cose così come sono si esca da questa crisi?

C’è ancora qualcuno che crede nel “mantra” ricerca/innovazione/crescita delle PMI? Forse solo chi ignora che non si può innovare, che non si può fare ricerca, se non ci sono le risorse.

Le aziende italiane stanno lottando per pagare gli stipendi e per pagare le materie prime in quanto non sono ritenute più sufficientemente affidabili per colpa delle politiche europee sul credito.

Ma non interessano a nessuno le PMI italiane?

I “pensatori” sperano nelle grandi multinazionali; nelle banche; nei fondi di investimento?; Sperano nelle ricette accademiche, nelle relazioni della cattedra?

Sarebbe invece auspicabile che le nostre università andassero nelle imprese italiane a calpestare – come si dice - un po' di "lamierino" e annusassero l'odore della crisi e che finalmente capissero le difficoltà del quotidiano.

Le imprese italiane devono pagare tasse sugli immobili che utilizzano per produrre, sull’energia che consumano e sugli interessi che pagano alle banche.

Le nostre industrie devono finanziare con il 25% dei loro consumi elettrici le nuove fonti rinnovabili; hanno il costo del lavoro più alto d'Europa; hanno il costo dell'energia più alto al mondo; devono pagare una commissione bancaria sui soldi che ottengono in affidamento ma che non utilizzano; devono provvedere in proprio alle visite di controllo dei loro lavoratori; devono pagare lo psicologo aziendale alla ricerca di stress correlati al lavoro.

E ancora le nostre aziende non possono detrarre totalmente dai costi aziendali le auto in uso ai dipendenti; i costi dei telefoni fissi e portatili e tutto ciò che non è detraibile è tassato dall'Ires.

Vero, lo Stato ha bisogno di risorse, ma non può ottenerle distruggendo il proprio sistema economico per non affrontare tagli alla propria macchina statale che è gravida di agevolazioni improprie, di ingiustizie e di sprechi inverosimili. Poi però non si scandalizza di fronte al diverso trattamento riservato agli operatori delle imprese italiane, uniche realtà che possono in caso di crescita risolvere il problema della disoccupazione e del welfare italiano.

C'è voluto il ritorno della svalutazione competitiva in chiave moderna, il quantitative easing, per aumentare di poco il Pil nell’anno di Expo.

Occorre un serio piano di rilancio tarato sul nostro sistema economico, una tassazione seria ma che permetta la crescita e lo sviluppo delle imprese, detassando chi investe, abolendo agevolazioni e finanziamenti a pioggia e non controllati direttamente dallo Stato. È necessaria una politica spietata che combatta l’evasione e l’elusione fiscale.

Non è più rinviabile una vera, coraggiosa, drastica politica di revisione dei costi della macchina statale. Non aspettiamoci che lo stellone italiano faccia i miracoli come un tempo. Allora c'erano le nostre PMI e i loro vulcanici imprenditori. Adesso che abbiamo liberato i nostri scaffali a Cina, India, Vietnam, Polonia, Romania, non possiamo chiedere agli imprenditori italiani l'impossibile.

Si è soliti dire: ora o mai più. Di tempo a disposizione ne è rimasto davvero poco.

Confimi Industria vigilerà come sempre affinché il Paese non si fermi e non si divida a scapito di una nuova politica industriale, sapendo che la rotta polare e il vero Welfare in Italia sono rappresentati da milioni di motorini di PMI che devono essere riavviati. Queste PMI rappresentano il 97% del nostro tessuto economico. Da qui bisogna ripartire per far sì che il nostro amato Made in Italy non solo diventi un semplice slogan, ma che addirittura non si trasformi in un serio problema occupazionale. Muoviamoci quindi prima che vengano spazzate definitivamente le nostre imprese rimaste e che si perda, con esse, la parte più vitale e sociale della storia del nostro Paese che non potrà più tornare, lasciando così senza il lavoro le nostre famiglie e i nostri figli. Auspico che il futuro Governo inizi a porre mano a questa grave situazione.

Marchi italiani venduti a gruppi stranieri:
Buitoni agli svizzeri
Parmalat ai francesi
Santarosa agli inglesi/olandesi
Valentino ai qatarioti
Alitalia agli arabi (Emirati Etihad)
Telecom ai francesi
Peroni ai sudafricani
Fiorucci agli spagnoli
Algida agli inglesi/olandesi
Carapelli agli spagnoli
Bertolli agli spagnoli
Sasso agli spagnoli
San Pellegrino agli svizzeri
Pelati AR Antonino Russo ai giapponesi
Fendi ai francesi
Safilo agli olandesi
Pininfarina agli indiani
Italcementi ai tedeschi
Pirelli ai cinesi
Ansaldo Breda ai giapponesi/Hitachi
Benetton (World duty free) agli svizzeri
Edison ai francesi
Pucci ai francesi
Bulgari ai francesi
Loro Piana ai francesi
Cova ai francesi
Gucci ai francesi
Bottega Veneta ai francesi
Richard Ginori ai francesi
Pomellato ai francesi
Brioni ai francesi
Poltrone Frau agli statunitensi
Krizia ai cinesi
Goldoni spa ai cinesi
Grom agli inglesi/olandesi
Fastweb agli svizzeri
Star agli spagnoli
Chianti classico ai cinesi

Riso Scotti agli spagnoli

Eskigel agli inglesi

Gancia ai russi

Fiorucci salumi agli spagnoli

Eridania Italia ai francesi

Boschetti alimentare ai francesi

Orzo Bimbo agli svizzeri









Torniamo ad occuparci di impresa perché l’industria italiana se ne va di Paolo Agnelli – Presidente di CONFIMI INDUSTRIA

Passata l’ubriacatura del Referendum, e in attesa che ci svanisca l’immagine di quel festival dell’ipocrisia a vari livelli a cui abbiamo assistito, è ora di tornare a parlare di economia, quella reale.

Perché? Perché la realtà dovrebbe fare più paura, i fatti allarmare di più, la situazione dell'industria manifatturiera italiana dovrebbe destare più attenzione. Ogni giorno un marchio storico della nostra industria viene acquistato da un gruppo straniero. Ogni giorno un industriale italiano decide (costretto!) di vendere e dedicarsi ad altro. Ogni giorno sempre più industrie italiane lasciano il nostro Paese per la Carinzia, la Polonia, la Romania, la Serbia, la Croazia e la Slovenia. Lì trovano tappeti rossi. Trovano costi e tasse che permettono la sopravvivenza per l'azienda e lavoro per i dipendenti e in cambio i nostri imprenditori contribuiscono alla crescita di questi paesi.

Le nostre aziende sembrano non interessare più al nostro Paese.

La politica in generale sembra puntare su altre risorse per sollevare l’Italia, per abbassare la disoccupazione.

Non può non preoccupare la perdita di grandi marchi italiani che sono stati venduti.

E ci sono tante aziende italiane, magari meno note, ma con altrettanto know how e con prodotti di valore che hanno passato la mano.

E se qualcuno commenta: “bene capitali stranieri che investono in Italia”, ci dispiace deluderlo: la lettura è diversa.

Queste società o investitori comprano i marchi, la tecnologia, acquisiscono i clienti e nell'arco di pochi anni la produzione - come abbiamo già visto e stiamo vedendo -  viene trasferita in Paesi dove è possibile produrre a prezzi competitivi. Siamo di fronte al fatto che migliaia di grossi industriali italiani lasciano l’Italia, e centinaia di grandi industrie lasciano Confindustria.

Negli ultimi 15 anni migliaia di imprese manifatturiere italiane hanno spostato la loro produzione all'estero assumendo in loco quasi 2 milioni e mezzo di lavoratori, gli stessi milioni  di lavoratori che hanno perso il posto in Italia.

La disoccupazione ha numeri che conosciamo; un giovane su due non trova lavoro. Molti pensionati emigrano in Paesi in cui riescono a sopravvivere con la loro pensione. 9 milioni di cittadini italiani vivono appena sopra la soglia di povertà. Dal 2007 ad oggi quasi 650.000 imprese hanno chiuso i battenti in un silenzio assordante, lasciando milioni di persone senza lavoro.  In questi 8 anni di crisi sono stati circa 500 i “suicidi economici”.

Ma è possibile che nessuno si accorga che senza la manifattura l’Italia è destinata ad una lenta agonia che porta alla morte?

Se ne sono accorti gli Stati Uniti. Alcuni anni fa Suzanne Berger, professoressa di scienze politiche al prestigioso MIT di Boston, una dei massimi esperti mondiali in tema di globalizzazione e competitività internazionale, ha condotto uno studio sulla manifattura, concludendo che andasse rilanciata con grande enfasi. La stessa manifattura che, tra l’altro, ha fatto da traino per la classe media americana.

Nessuno capisce che la politica economica e del credito dettata dall'Europa non si addice e non può essere applicata al nostro tessuto economico fatto di piccole e medie imprese? Veramente c’è qualcuno in grado di illudersi, e di illudere la gente, che lasciando le cose così come sono si esca da questa crisi?

C’è ancora qualcuno che crede nel “mantra” ricerca/innovazione/crescita delle PMI? Forse solo chi ignora che non si può innovare, che non si può fare ricerca, se non ci sono le risorse.

Le aziende italiane stanno lottando per pagare gli stipendi e per pagare le materie prime in quanto non sono ritenute più sufficientemente affidabili per colpa delle politiche europee sul credito. Ma non interessano a nessuno le PMI italiane?

I “pensatori” sperano nelle grandi multinazionali;  nelle banche; nei fondi di investimento ?;  Sperano nelle ricette accademiche, nelle relazioni della cattedra?

Sarebbe invece auspicabile che le nostre università andassero nelle imprese italiane a calpestare - come si dice - un po' di "lamierino" e annusassero l'odore della crisi e che finalmente capissero le difficoltà del quotidiano.

Le imprese italiane devono pagare tasse sugli immobili che utilizzano per produrre, sull’energia che consumano e sugli interessi che pagano alle banche. Le nostre industrie devono finanziare con il 25 % dei loro consumi elettrici le nuove fonti rinnovabili; hanno il costo del lavoro più alto d'Europa; hanno il costo dell'energia più alto al mondo; devono pagare una commissione bancaria sui soldi che ottengono in affidamento ma che non utilizzano; devono provvedere in proprio alle visite di controllo dei loro lavoratori; devono pagare lo psicologo aziendale alla ricerca di stress correlati al lavoro.

E ancora le nostre aziende non possono detrarre totalmente dai costi aziendali le auto in uso ai dipendenti; i costi dei telefoni fissi e portatili e tutto ciò che non è detraibile è tassato dall'Ires.

Vero, lo Stato ha bisogno di risorse, ma non può ottenerle distruggendo il proprio sistema economico per non affrontare tagli alla propria macchina statale che è gravida di agevolazioni improprie, di ingiustizie e di sprechi inverosimili. Poi però non si scandalizza di fronte al diverso trattamento riservato agli operatori delle imprese italiane, uniche realtà che possono in caso di crescita risolvere il problema della disoccupazione e del welfare italiano.

C'è voluto il ritorno della svalutazione competitiva in chiave moderna, il quantitative easing, per aumentare di poco il Pil nell’anno di Expo. Occorre un serio piano di rilancio tarato sul nostro sistema economico, una tassazione seria ma che permetta la crescita e lo sviluppo delle imprese, detassando chi investe, abolendo agevolazioni e finanziamenti a pioggia e non controllati direttamente dallo Stato. È necessaria una politica spietata che combatta l’evasione e l’elusione fiscale.

Non è più rinviabile una vera, coraggiosa, drastica politica di revisione dei costi della macchina statale. Non aspettiamoci che lo stellone italiano faccia i miracoli come un tempo. Allora c'erano le nostre PMI e i loro vulcanici imprenditori. Adesso che abbiamo liberato i nostri scaffali a Cina, India, Vietnam, Polonia, Romania, non possiamo chiedere agli imprenditori italiani l'impossibile.

Si è soliti dire: ora o mai più. Di tempo a disposizione ne è rimasto davvero poco. Confimi Industria vigilerà come sempre affinché il Paese non si fermi e non si divida a scapito di una nuova politica industriale, sapendo che la rotta polare e il vero Welfare in Italia sono rappresentati da milioni di motorini di PMI che devono essere riavviati. Queste PMI rappresentano il 97% del nostro tessuto economico. Da qui bisogna ripartire per far sì che il nostro amato Made in Italy non solo diventi un semplice slogan, ma che addirittura non si trasformi in un serio problema occupazionale. Muoviamoci quindi prima che vengano spazzate definitivamente le nostre imprese rimaste e che si perda, con esse, la parte più vitale e sociale della storia del nostro Paese che non potrà più tornare, lasciando così senza il lavoro le nostre famiglie e i nostri figli. Auspico che il futuro Governo inizi a porre mano a questa grave situazione.   
 

Scheda di spalla:

Marchi italiani venduti a gruppi stranieri:

Buitoni agli svizzeri

Parmalat ai francesi

Santarosa agli inglesi/olandesi

Valentino ai qatarioti

Alitalia agli arabi (Emirati Etihad)

Telecom ai francesi

Peroni ai sudafricani

Fiorucci agli spagnoli

Algida agli inglesi/olandesi

Carapelli agli spagnoli

Bertolli agli spagnoli

Sasso agli spagnoli

San Pellegrino agli svizzeri

Pelati AR Antonino Russo ai giapponesi

Fendi ai francesi

Safilo agli olandesi

Pininfarina agli indiani

Italcementi ai tedeschi

Pirelli ai cinesi

Ansaldo Breda ai giapponesi/Hitachi

Benetton (World duty free) agli svizzeri

Edison ai francesi

Pucci ai francesi

Bulgari ai francesi

Loro Piana ai francesi

Cova ai francesi

Gucci ai francesi

Bottega Veneta ai francesi

Richard Ginori ai francesi

Pomellato ai francesi

Brioni ai francesi

Poltrone Frau agli statunitensi

Krizia ai cinesi

Goldoni spa ai cinesi

Grom agli inglesi/olandesi

Fastweb agli svizzeri

Star agli spagnoli

Chianti classico ai cinesi

Riso Scotti agli spagnoli

Eskigel agli inglesi

Gancia ai russi

Fiorucci salumi agli spagnoli

Eridania Italia ai francesi

Boschetti alimentare ai francesi

Orzo Bimbo agli svizzeri



Cookies user preferences
We use cookies to ensure you to get the best experience on our website. If you decline the use of cookies, this website may not function as expected.
Accept all
Decline all
Analytics
Tools used to analyze the data to measure the effectiveness of a website and to understand how it works.
Google Analytics
Accept
Decline
Save