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Nasce il Consorzio di tutela della Mozzarella di Gioia del Colle Dop

Dopo aver ottenuto ufficialmente il marchio Dop a livello europeo, la Mozzarella di Gioia del Colle da oggi potrà finalmente contare su un Consorzio di tutela che ne certifichi la provenienza e ne tuteli la qualità. Costituito esclusivamente da caseifici e produttori di latte, singoli e associati, della zona di produzione, il Consorzio nasce con l’intento di salvaguardare e promuovere nel mondo questa straordinaria specialità, patrimonio gastronomico e culturale pugliese ed italiano. Oltre ad annoverare una tradizione secolare, la Mozzarella di Gioia del Colle Dop è famosa per il gusto conferito dal latte e dall’utilizzo in produzione del siero innesto: un sapore delicatamente acidulo con piacevole retrogusto di fermentato. Si tratta di una materia prima prodotta esclusivamente da vacche da latte di razze selezionate, che pascolano libere tra i muretti a secco tipici della campagna pugliese e a cui è garantita un’alimentazione sana ed equilibrata fatta di materie prime nobili provenienti per il 60% dal territorio della Dop. Grazie al Consorzio, l’Italia porterà sulle tavole di tutto il mondo una mozzarella di latte vaccino unica nel sapore e nel gusto. Al fianco del presidente Claudia Palazzo, il vice presidente Pietro Laterza e i consiglieri: Giovanni D’Ambruoso, Giancarlo Nettis, Andrea Brandonisio, Domenica Fauzzi, Francesco D’Ambruoso, Giuseppe Rizzi, Giacomo Mottola, Vito Laterza e Francesco D’Onghia.   

Alimentare: il settore più apprezzato dai consumatori italiani

Limitazioni ambientali e sociali legate alla pandemia  che creano un consumatore nervoso e fortemente insoddisfatto del customer care ricevuto. Brand reputation che dipende solo per il 45% dai benefici provenienti da prodotti/servizi, per il 35% dall’impatto sociale della marca e per il 20% dai comportamenti dei vertici aziendali. A rischio la fedeltà alla marca. Nel dichiarato dei consumatori Alimentare (35,3%), Grande distribuzione (30,3%) e Automotive (28,1%) sono i settori più vitali, mentre il comparto Energy & Utilities raccoglie pochi consensi e moltissimi indecisi.

Questa in sintesi la fotografia scattata da Omnicom PR Group – società di consulenza strategica in comunicazione con 6.300 addetti nel mondo – nel suo studio che, per la prima volta ha analizzato la reputazione di 9 settori chiave dell’economia italiana, con 72 brand associati, attraverso le lenti attente di oltre 2.000 consumatori.

I DRIVER CHE CREANO IL PERCEPITO DI UNA MARCA

Impatto Sociale (Society Outcomes): 35%

  • Prendersi cura dei dipendenti
  • Contribuire alla comunità in cui si opera
  • Rispetto dell’ambiente

Comportamenti Aziendali (Management Behaviours): 20%

  • Fare la cosa giusta (impegno a supportare cambiamenti su etica e trasparenza)
  • Performance finanziarie e operative più solide e coerenti
  • Comunicare in modo più frequente e credibile

Benefici per i clienti (Customer Benefits): 45%

  • Offrire prodotti e servizi a maggior valore (trasparenza su produzione o erogazione servizio, origini materie prime, affidabilità, certificazioni di filiera, trattamento e protezione dei dati del consumatore)
  • Attenzione per i clienti (Customer care)
  • Innovazione di prodotti e servizi

From “Selling to Serving”: è questo il cambiamento che i consumatori richiedono alle aziende, inteso come servizio verso le persone, l’ambiente e la comunità. In un contesto socioeconomico in continuo cambiamento, che nell’ultimo anno ha reso nervosi e frustrati gli italiani, non stupisce come le aspettative degli intervistati siano più alte rispetto al passato. L’esperienza vissuta dai consumatori presenta quindi un divario rispetto alle attese, soprattutto per quanto riguarda la cura dei clienti (-79 punti),l’attenzione e il rispetto verso l’ambiente (-67%) e l’offerta di prodotti a maggior valore (-62). La digitalizzazione forzata di alcuni servizi di assistenza e vendita ha influito negativamente sulla creazione di questo percepito.

Tuttavia, gli sforzi messi in campo dal comparto – che comprendono iniziative solidali di donazione cibo e pasti – non sono passati inosservati e hanno decretato il settore alimentare come il più apprezzato dagli italiani. Insieme a Grande distribuzione e Automotive, il Food è tra i settori che registrano il miglior rapporto aspettative vs. esperienze.

I risultati dello studio hanno la finalità di far emergere il non-dichiarato, tramite l’analisi di reazioni emotive e cognitive a stimoli visivi, misurate tramite i parametri di vicinanza valoriale e engagement emotivo. L’atteggiamento generale è di un consumatore meno fedele, molto più concentrato su ciò che è essenziale e funzionale alla vita di ogni giorno, portando i brand verso una dimensione di commodity.

Nell’ambito del settore alimentare, l’analisi ha evidenziato l’efficacia di una strategia comunicativa che mette al centro dello storytelling del brand i messaggi legati alla sostenibilità ed alla cura dei dipendenti. Questi messaggi, soprattutto se supportati da evidenze e fatti, inducono ad atteggiamenti impliciti e indicatori di interesse e piacevolezza positivi. La qualità del prodotto si conferma un topic che rassicura razionalmente, ma non riesce ad ingaggiare emotivamente il consumatore.

Insetti commestibili, il via libera dell’UE e le reazioni

L’Unione Europea ha dato il via libera alla commercializzazione delle larve di Tenebrio Molitor come ingredienti per l'alimentazione umana

Per parafrase una delle più celebri filastrocche per bambini, parlando di entomofagia, si potrebbe quasi dire che, dopo gli insetti, ”Non manca più nessuno…”.

Dopo il via libero scientifico dell’Efsa infatti, è arrivato anche quello “commerciale” della Commissione Europea all’utilizzo degli insetti per uso alimentare. Si inizia con le “superstar” del settore, ovvero le larve delle tarme della farina (Tenebrio Molitor).

La decisione formale della Commissione europea sarà adottata nelle prossime settimane nell’ambito della strategia UE “Farm to Fork” e sancisce che le larve potranno essere utilizzate intere, essiccate, come snack o ingrediente per altri prodotti.

Interessante è lo studio condotto da dalle Università di Pisa e di Parma intitolato “Insetti nel piatto: il pregiudizio contrario si vince con una corretta comunicazione” che ha appena ricevuto il premio “Foods Best Paper Award”. Lo studio comprendeva anche un test di degustazione durante il quale sessantasei partecipanti al seminario hanno accettato di assaggiare due tipologie di pane, in realtà del tutto identiche e a base di sola farina, sebbene una delle due fosse etichettata come “contenente insetti”. Da qui un’ulteriore sorpresa: i punteggi sensoriali hanno infatti indicato che i partecipanti hanno dato ai campioni etichettati “contenenti insetti” punteggi più alti per sapore, consistenza e gradimento generale.

Tornando alla decisione dell’UE, è arrivata la reazione di Coldiretti, che in una nota ha dichiarato: ”Una corretta alimentazione non può però prescindere dalla realtà produttiva e culturale locale nei Paesi del terzo mondo come in quelli sviluppati e a questo principio non possono sfuggire neanche bruchi, coleotteri, formiche o cavallette a scopo alimentare che, anche se iperproteici, sono molto lontani dalla realtà culinaria nazionale italiana ed europea.Al di là della normale contrarietà degli italiani verso prodotti lontanissimi dalla nostra cultura, l’arrivo sulle tavole degli insetti solleva dei precisi interrogativi di carattere sanitario e salutistico ai quali è necessario dare risposte, facendo chiarezza sui metodi di produzione e sulla stessa provenienza e tracciabilità considerato che la maggior parte dei nuovi prodotti proviene da Paesi extra Ue, come la Cina o la Thailandia, da anni ai vertici delle classifiche per numero di allarmi alimentari”.

Nella stessa lunghezza Filiera Italia, che per voce del consigliere delegato Luigi Scordamaglia ha dichiarato “Un altro paradosso di un approccio troppo ideologico alla Farm to Fork. Da una parte si spinge verso una messa in discussione della produzione delle nostre straordinarie eccellenze alimentari, soprattutto zootecniche, prodotte secondo un modello di sostenibilità unico al mondo” dice Scordamaglia “dall’altra si spingono cibi etnici, alternativi e strumentalmente proposti come più sostenibili per coprire la richiesta crescente di proteine nobili”.

Raggiante ovviamente il massimo esperto italiano del settore, Lorenzo Pezzato: “Il via libera degli stati membri era davvero l’ultimo passaggio fondamentale, l’industria degli insetti commestibili lo attendeva da anni. Adesso che abbiamo anche le norme sull’etichettatura non rimane che aspettare qualche settimana per il disbrigo delle ultime formalità burocratiche. Un momento storico possiamo dire anche, che in futuro sarà ricordato come spartiacque tra un prima e un dopo. L’apertura agli insetti come nuovo ingrediente alimentare farà decollare – finalmente- anche le vendite dei prodotti finiti che ne contengono la farina, che arriveranno agli scaffali dei negozi e dei supermercati molto, molto presto. E stavolta non è solo una previsione”.

Rispetto alle tematiche emerse dallo studio citato in apertura, Lorenzo ha dichiarato Con Fucibo (la sua azienda , ndr) noi abbiamo scelto di non usare immagini di insetti sui nostri pack, ma di inserire la dicitura “con proteine da insetti” nel fronte, ben visibile perché in effetti è proprio questo che differenzia i nostri prodotti da quelli tradizionali. Quindi non è stata una scelta fatta per nascondere in qualche modo la presenza della farina di insetti nella nostra pasta, nelle chips o nei crackers, solo abbiamo deciso di usare un approccio che non stimoli direttamente l’immaginario visivo”.“Senza dubbio, oltre la comunicazione, contano l’educazione, la conoscenza e l’esperienza. Con l’apertura del mercato e la possibilità di raggiungere le persone come fino a qualche giorno fa non era possibile, la voce che i prodotti a base di insetti sono davvero buoni si spargerà molto più in fretta, e gli imprenditori raccoglieranno i frutti di quanto in questo senso hanno seminato per anni”conclude .

Vino “annacquato”? Quello che c’è da sapere sulla questione dei prodotti dealcolati in discussione a Bruxelles

L’Europa vuole davvero annacquare il vino? A giudicare dai titoli di alcuni quotidiani che parlano di “inganno legalizzato” e “Made in Italy sotto attacco” si potrebbe pensare che l’Unione Europea stia pensando di obbligare i produttori vitivinicoli ad allungare con acqua i propri prodotti per ridurne il tasso alcolico. Ma la questione dei vini dealcolati e parzialmente dealcolati – questo il nome tecnico dei vini senza alcol o con un quantitativo ridotto – è molto più complessa ed è ancora in fase di discussione a Bruxelles, nell’ambito delle trattative per la nuova Politica agricola comunitaria (Pac). Ma andiamo con ordine.

Tutto è iniziato con un comunicato infuocato di Coldiretti in cui denuncia la proposta di “allungare il vino con acqua” – ma anche delle etichette per gli alcolici, i programmi di disincentivazione del consumo di carne, le etichette a semaforo e l’approvazione dei primi insetti commestibili– come minacce a dieta mediterranea e Made in Italy. “L’introduzione della dealcolazione parziale e totale come nuove pratiche enologiche – ha dichiarato Ettore Prandini, presidente di Coldiretti – rappresenta un grosso rischio ed un precedente pericolosissimo e che metterebbe fortemente a rischio l’identità del vino italiano e europeo, anche perché la definizione “naturale” e legale del vino vigente in Europa prevede il divieto di aggiungere acqua”. La questione dei vini dealcolati è uno dei temi in corso di discussione per la definizione di una parte della nuova Pac, chiamata Organizzazione comune dei mercati, che entrerà in vigore nel 2023. Una mossa che, secondo i suoi proponenti, aprirebbe ai produttori vitivinicoli europei i mercati dei Paesi dove non si consumano bevande alcoliche. Un altro mercato a cui puntano i sostenitori della proposta è quello dei consumatori che non vogliono o non possono assumere alcolici per motivi legati alla salute. A mettere sul piede di guerra Coldiretti e altre associazioni di categoria, però, è stata la richiesta di inserire norme che permettano di realizzare vini con indicazioni geografiche parzialmente dealcolati.

Il presidente di Federvini Sandro Boscaini ha dichiarato invece di considerare una possibile regolamentazione dei vini dealcolati all’interno della legislazione europea come “un passo necessario ed utile”, precisando anche che “il rischio di vedere delle denominazioni d’origine dealcolate è inesistente a meno che i produttori non decidano di modificare i propri disciplinari: a conferma che i produttori restano i custodi delle caratteristiche della propria denominazione”. È dello stesso parere anche l’europarlamentare italiano Paolo DiCastro, il quale, pur essendo dell’opinione “che un vino senza alcol non può essere definito tale”, ha spiegato come “la scelta finale su un’eventuale modifica del proprio prodotto rimarrà nelle loro mani, con i necessari cambiamenti dei rigidi disciplinari interni di produzione”.

Incognita oli comunitari: 7 su 15 non sono extravergini

Non è extravergine. È questo il verdetto del panel test eseguito dal comitato di assaggio del Laboratorio chimico dell’Agenzia delle Dogane e dei monopoli di Roma su 7 campioni di olio che, alla prova organolettica, hanno riportato dei difetti e pertanto sono risultati appartenere alla categoria degli oli di oliva vergini. Una bocciatura che non rappresenta un rischio di salute per il consumatore ma di certo un problema per le sue tasche: acquistare un extravergine significa pagare un 30-40% in più di un semplice vergine. Quelli che presenta “Il Salvagente”   sono risultati sorprendenti per almeno due motivi. Innanzitutto perché su 15 oli extravergini testati – tutte miscele di provenienza Ue, solo nel caso del Colavita l’origine è Ue e non Ue – quasi la metà alla prova d’assaggio sono risultati essere oli di oliva vergine: parliamo di De Cecco ClassicoColavita Mediterraneo tradizionale, Carapelli Frantolio, CoricelliCirio Classico, La Badia-Eurospin e il Saggio Olivo di Todis.

Le aziende, analisi alla mano,  sostengono che il loro olio è extravergine e come tale è stato consegnato ai supermercati. Dunque se ha perso tali qualità è colpa del trasporto o dello stoccaggio. Il problema però, verrebbe da ribattere, non  certo del consumatore che acquista in buona fede un olio credendolo (e pagandolo) come extravergine.

Pmi alimentari fra riaperture e scenari per il futuro

Bar e ristoranti hanno riaperto lunedì, il tanto atteso 26 aprile. Ovviamente solo quelli siti nelle Regioni di colore giallo che dispongono di posti a sedere all’aperto e salvo avverse condizioni meteo. La vita per i ristoratori – nelle loro differenti tipologie – non sembra essere ancora facile. E di conseguenza anche tutta la filiera, dal campo alla tavola, soffre delle stesse difficoltà.
E mentre si attende una buona copertura vaccinale che possa sancire il famigerato “liberi tutti”, le pmi alimentari si sentono ripetere dai vari stakeholder – a molti piace chiamarli così – l’importanza degli investimenti in “green economy” e “digitalizzazione” come fosse la panacea di tutti i mali. Eppure, quelle pmi alimentari, che realizzano prodotti ineguagliabili e d’eccellenza tra i primi in valore in termini di export del Made in Italy, spesso affossate da dazi e strumentalizzate negli accordi commerciali, attendono pazientemente il solo riavvio della filiera, la riapertura dei mercati europei cercando di sopravvivere a chi desidererebbe acquistarle selvaggiamente. E se avevano intravisto uno spiraglio di luce nei mercati extra Ue, ecco subito mettersi di traverso situazioni sfavorevoli come il bruciante aumento di moltissime materie prime (la plastica per il confezionamento in primis) e dei costi di trasporto internazionali a causa della nota carenza di container e della congestione dei porti. Per finire, la Brexit, l’import/export con Gran Bretagna (4° mercato per il nostro export alimentare) ora mercato extraeuropeo dopo un iniziale -40,7% dell’export e del 28,8% dell’import a gennaio, vive ancora momenti difficili in attesa della completa definizione dei nuovi accordi doganali.
Ora, con il Recovery il sistema Italia avrà a disposizione 248 milioni di euro per cambiare volto. Non solo rispetto agli ultimi 15 mesi affaticati dalla pandemia, no, un’opportunità per rivedere tutto quello che ad oggi non va. Milioni di euro per rendere perfettibile la nostra meravigliosa penisola.Speriamo che tra le Missioni che contraddistinguono il piano e nelle azioni che poi saranno messe a terra nel concreto si possano leggere tra le righe quei termini che tanto ricerchiamo nelle democrazie altrui: etica, morale, integrità, bene comune, responsabilità sociale . Termini che, applicati, possono fare davvero la differenza per dare un futuro al nostro paese.
Poi, come imprenditori e come associazione, dobbiamo di certo fare la nostra parte. Le PMI Alimentari, anche a causa della loro dimensione, da sempre riescono ad intercettare solo una minima parte delle opportunità che vengono messe a disposizione: oggi è doveroso cambiare registro per interpretare e gestire al meglio le proposte e comprendere appieno le potenzialità messe in campo dall’Unione Europea nei nostri confronti.
 Insieme poi, dobbiamo superare le complesse norme interpretative che fanno da corollario ai vari provvedimenti governativi per poter così utilizzare al meglio gli strumenti che ci vengono messi a disposizione. E in questo Confimi Industria e Confimi Industria Alimentare possono fare la differenza.

di Pietro Marcato Presidente  Nazionale Confimi Alimentare

 

 

 

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